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XXIV Patagonia, Tierra del fuego, Magallan (17.03.17)

(in parte da Wiki)

Patagonia

La Patagonia deve il suo nome ai Patagoni, termine usato da Ferdinando Magellano per indicare i nativi di quelle terre (oggi identificati dalle tribù dei Tehuelche e degli Aonikenk), che lui scambiò per giganti. Nel corso degli ultimi secoli, dopo un periodo di occupazione portoghese fino alla fine del Cinquecento, la regione patagonica riuscì a mantenersi almeno parzialmente fuori dall’occupazione spagnola. Poi subentrò la colonizzazione e la lotta di spartizione del territorio tra Cile e dall’Argentina, conclusasi appena di recente, negli anni ’80, dopo che nei decenni precedenti le pretese reciproche avevano spinto i due paesi a più riprese sull’orlo della guerra.

Nel 1881 Argentina e Cile si spartirono la Terra del Fuoco, ossia la parte più a sud, chiamata così pure da Magellano che, dopo aver visto i fuochi degli indigeni, l’aveva battezzata terra del fumo. Molto più tardi, nel XIX secolo, la corsa all’oro portò alla fondazione di numerose località da parte degli immigrati, come gli insediamenti argentini di Ushuaia e Río Grande e quelli cileni di Porvenir e Puerto Toro.

Le tensioni tra Argentina e Cile non sono mai cessate. Ancora nel 1982 Pinochet aveva dato supporto logistico all’Inghilterra, così favorita nella lotta per le Isole Faulkland (Malvinas). Quegli eventi spiegano perché gli argentini continuano a rivendicare le Malvinas come territorio argentino. Ovunque nel paese si incontra lo slogan ‘Las Malvinas son argentinas’.

 

Tierra del fuego

I primi europei a raggiungere il territorio furono i marinai della spedizione di Ferdinando Magellano nel 1520. Nel 1525 Francisco de Hoces fu il primo ad ipotizzare che il territorio fosse in realtà un’isola o un arcipelago, invece che una propaggine di quella che in seguito sarebbe stata chiamata Terra Australis. Francis Drake nel 1578 e una spedizione della Compagnia olandese delle Indie orientali nel 1616 fecero nuove scoperte geografiche. All’ultima spedizione si deve il nome Capo Horn.

Da allora, nessun europeo vi stabilì la sua residenza fino alla seconda metà del XIX secolo, quando alcuni pionieri furono attratti dalle possibilità dell’ovinicoltura e dalle prospettive della corsa all’oro. Una spedizione cilena del 1879 aveva scoperto giacimenti alluvionali d’oro nel letto dei fiumi della Terra del Fuoco. Il ritrovamento provocò una massiccia immigrazione nell’Isola Grande tra il 1883 e il 1909. Numerose persone dall’Argentina, dal Cile e anche dalla Croazia si stabilirono nel territorio, portando a numerosi conflitti con i nativi Selknam .

Tierra del fuego

Ferdinando Magellano,

(in latino: Ferdinandus Magellanus; in portoghese: Fernão de Magalhães; in spagnolo:Fernando de Magallanes), di origine portoghese, 1480 –1521, intraprese, pur senza portarla a termine perché ucciso nelle odierne Filippine nel 1521, quella che sarebbe diventata la prima circumnavigazione del globo al servizio della corona spagnola di Carlo V di Spagna. Fu infatti il primo a raggiungere, partendo dall’Europa verso ovest, le Indie e – attraverso il passaggio a ovest da lui scoperto e successivamente chiamato stretto di Magellano – il primo europeo a navigare nell’oceano Pacifico.

Con una flotta di cinque navi e 237 uomini era salpato il 20 settembre 1519 da Sanlúcar de Barrameda in Spagna. Il 28 novembre 1520, rimasto con tre sole navi dopo il naufragio di una e la diserzione dell’equipaggio della seconda, attraversò lo stretto nell’attuale Cile che da lui prese il nome e si inoltrò in un grande oceano sconosciuto agli occidentali che, per l’assenza delle tempeste che caratterizzavano invece l’Atlantico, Magellano battezzò Pacifico. Nel marzo del 1521 raggiunse le Isole Marianne e poi le Filippine, chiamate Isole di San Lazzaro, dove morì per mano degli indigeni.

Il viaggio di Magellano dimostrò definitivamente quattro cose:

  • – che la Terra è una sfera; che la circonferenza del pianeta è maggiore di quanto avessero mai creduto tutti i geografi;

  • – che l’America poteva essere circumnavigata al pari del continente africano;

  • – che si perdono 24 ore se si segue il cammino del Sole da occidente a oriente. Quest’ultima osservazione fornì le basi a nuove speculazioni di interesse fisico e metafisico sulla natura del tempo e dell’eternità.

  • Monumento a Magellano a Punta Arenas

La Victoria era una caracca spagnola, prima nave ad aver circumnavigato il globo ed unica ad essere tornata in Patria dopo la spedizione di Ferdinando Magellano. La nave, con le sue 85 tonnellate di stazza, era la quarta per dimensione della flotta di cinque partita da Siviglia il 10 agosto 1519. Era comandata da Luis de Mendoza ed aveva 42 uomini di ciurma. A bordo vi era Antonio Pigafetta che avrebbe pubblicato in seguito il diario di bordo della spedizione. Le altre quattro navi erano la Trinidad (caravella), la San Antonio, la Consepcion e la Santiago (caracche).
Nel 2006, con la volontà di rendere omaggio al primo europeo a mettere piede nell’attuale territorio cileno, un impresario di Punta Arenas, Cile, decise di investire nella costruzione di una replica a grandezza naturale della prima nave che abbia mai circumnavigato il globo terrestre.

La Victoria, ricostruita secondo l’originale a Punta Arenas

La Beagle, ricostruita secondo l’originale a Punta Arenas

La HMS Beagle fu un brigantino a dieci cannoni della Royal Navy, il cui nome deriva dalla razza canina beagle. Fu varato l’11 maggio 1820 dai cantieri di Woolwich sul fiume Tamigi e costò 7.803 sterline dell’epoca. Nel luglio dello stesso anno prese parte alla parata navale per la celebrazione dell’incoronazione di re Giorgio IV del Regno Unito durante la quale fu la prima nave a veleggiare sotto il nuovo London Bridge. Dopo quell’occasione non ci fu nessun immediato bisogno della Beagle, che fu perciò tenuta in riserva per cinque anni e “mantenuta in servizio”, in acqua, ma senza equipaggio.

Fu poi adattata ad unità di ricognizione e prese parte a tre spedizioni. Durante il suo secondo viaggio ospitò a bordo l’allora giovane naturalista Charles Darwin, il cui lavoro rese la Beagle una delle più famose navi della storia. Le prime parti della struttura dello scafo della ricostruzione a scala naturale del HMS Beagle che si sta terminando nel Museo Nao Victoria, Punta ArenasCile

Nel 2009 sono stati celebrati i 200 anni dalla nascita di Darwin e i centocinquanta anni della pubblicazione de “L’origine delle specie” di Charles Darwin, con queste date in mente un gruppo di imprenditori britannici prevedeva di ricostruire la mitica nave per ripercorrere il secondo viaggio di esplorazione, con Darwin naturalista a bordo, sotto il comando di Robert Fitz Roy. L’idea era quella di rifare lo stesso percorso del HMS Beagle in tutto il mondo con un equipaggio di giovani scienziati, purtroppo il progetto è stato accantonato per mancanza di fondi.
Il 31 dicembre 2011 si annuncia la costruzione di una riproduzione del HMS Beagle nel Museo Nao Victoria della città di Punta Arenas in Cile[2]. Nel 2012 è inizia la costruzione della replica a scala naturale del HMS Beagle, nel frattempo terminata.

 

XXIII Chile: Geschichte, ‘causa Pinochet’, Rückkehr der Demokratie  (1.03.17)

(teilweise aus Wiki)

Als Magellan 1520 den Durchgang vom Atlantik zum Pazifik fand, bekam er die vielen Boote der Yaghan, der Wassernomaden, zu Gesicht. In den Booten liess man das Feuer nie erlöschen, sodass sie in der Nacht ein Lichtspektakel abgaben. Magellan nannte das Land Tierra de los Humos (Lande des Rauches), das später zur Tierra del fuego wurde. Leider erging es den Yaghan nicht besser als unzähligen anderen Stämmen in Nord- und Südamerika: Sie wurden ausgerottet! In Chile überlebten nur und die Aymara im Norden und die Mapuche in Patagonien, die anfänglich heftigen Widerstand leisteten und 1553 den spanischen Conquistador Pedro de Valdivia töteten.

Zwar wurde die Geschichte Chiles weniger von den Spaniern und mehr von anderen europäischen Einwanderer aus Deutschland, England, Irland, Portugal usw. geprägt, aber deren Verlauf sieht durchaus ähnlich aus. Jedenfalls ab der Unabhängigkeit, die 1816 erlangt wurde und zu der der Ire Bernardo O’Higgins als Oberbefehlshaber der Truppen Entscheidendes beitrug. An Stelle einer ‚spanischen Einigkeit’ entwickelte sich vorerst im frühen 19. Jh. die ‚unidad de los latifundistas’, der Grossgrundbesitzer, der sich dann jene des Handelsbürgertums und der Industriekapitalisten gesellte. Daraus entwickelte sich im Übergang zum 20. Jh. nicht nur ein Zweiparteiensystem, sondern auch ein relativ stabiles Staatsgefüge, das die immensen Rohstoffe, Gold, Silber, Kupfer, Salpeter auszunützen wusste. Bezeichnend ist der Salpeterkrieg gegen Peru und Bolivien, der 1883 mit beträchtlichem Landgewinn gewonnen wurde und im Friedensvertrag von1904 zu Ende ging, wobei dies für Bolivien der Verlust des Zuganges zum Meer bedeutete. Daher rührt auch das seit je gespannte Verhältnis zwischen den drei Ländern. Spannungen gab es auch mit Argentinien, die allerdings zuerst 1881 mit einem Grenzvertrag, der Chile die Magellanstrasse zusicherte und dann wieder 1904 beigelegt wurden.

Chile, bzw. dessen Oberschicht, wurden im frühen 20. Jh. mit der Ausfuhr von Salpeter, dessen Nachfrage mit dem Weltkrieg in die Höhe schnellte sehr reich.

1920 kam ein Präsident an die Macht (Alessandri y Palma), der eine fortschrittliche, die armen Massen begünstigende Politik betrieb, u.a. mit Unterstützung des Militärs, und dem Land eine neue demokratische Verfassung gab. Aber der Widerstand regte sich und 1927 wurde er abgesetzt, kam aber 1932, nach der Weltwirtschaftskrise und dem darauffolgenden politischen Chaos wieder an die Macht. In der Zwischenkriegszeit wurden aber Grundlagen einer demokratischen Tradition mit einem Präsidialsystem gelegt.

In den 50er und 60er Jahren festigte sich die Vormacht der Christdemokraten, u.a. mit einer Wiederaufbauarbeit nach dem Erdbeben von 1960 (Stärke 9.5, der stärkste je gemessene Erdbeben) und sozialen Strukturreformen. Trotzdem wurde Eduardo Frei 1970 vom Sozialisten Salvador Allende, Kandidat der Unidad Popular, abgelöst. Allende verfügte über keine Mehrheit im Parlament und musste mit der Unterstützung der Christdemokraten regieren. Die Lage des Landes war prekär, wirtschaftlich und sozial.

„Die Politik der Unidad Popular brachte zunächst starke Verbesserungen für die Arbeiter und die Unterschicht. Die Löhne wurden um 35 bis 60 % erhöht. Die Preise für die Mieten und für wichtige Grundbedarfsmittel wurden eingefroren. Schulbildung und Gesundheitsversorgung wurden kostenfrei angeboten. Allende ließ politische Gefangene der „revolutionären Linke“ frei. Jedes Kind bekam Schuhe sowie täglich einen halben Liter Gratismilch. Die Kindersterblichkeitsrate sank so um 20 %, aber dem Land fehlten die ökonomischen Mittel, um all diese sozialen Wohltaten zu finanzieren. Der Schwerpunkt von Allendes Wirtschaftspolitik war die entschädigungslose Verstaatlichung der Bodenschätze, die Enteignung von ausländischen Großunternehmen, der Banken und eine Agrarreform, bei der 20.000 km² Fläche von Großgrundbesitzern an Bauern übergeben werden sollten. Die sozialistische Regierung wollte Chile weniger abhängig von der übrigen Welt, insbesondere von den USA, machen. 1970 wurden der Kohlebergbau und die Textilindustrie verstaatlicht. 1971 wurden die noch in (vor allem US-amerikanischem) Privatbesitz befindlichen Anteile am Kupferbergbau mit Zustimmung aller Parlamentsparteien sozialisiert. Im gleichen Jahr wurden auch die Banken verstaatlicht. Im Jahr 1971 wuchs die Wirtschaftsleistung um elf Prozent und die Arbeitslosigkeit sank auf drei Prozent. Allerdings begann die Inflationsratedeutlich zu steigen.“ (Wiki)

Mit der Machtübernahme von Castro 1959 auf Kuba intensivierten die USA ihre Einflussnahme in Südamerika.

„Der Wahlsieg Allendes traf in den USA dann auf heftigen Widerstand. Unmittelbar nach der Wahl gab Nixon der CIA die Anweisung, den Amtsantritt Allendes zu verhindern. Dafür sollte der verfassungstreue Oberbefehlshaber der chilenischen Armee, General René Schneider entführt werden, um linke Gruppierungen zu diskreditieren und das Land zu destabilisieren. Schneider hatte sich gegen Bestrebungen innerhalb des Militärs gestellt, einen Putsch gegen Allende durchzuführen. Tatsächlich wurde er durch die seitens der CIA finanzierten rechten Terrorgruppe Patria y Libertad am 22. Oktober 1970 entführt und, als er sich widersetzte, von den Entführern erschossen.

Zudem führte die CIA einen umfangreichen Propagandakrieg gegen die chilenische Regierung. Millionen von Dollars aus US-Steuergeldern wurden dazu aufgewendet, proamerikanische chilenische Medienunternehmen zu finanzieren und einige neu zu gründen. Die CIA sorgte des Weiteren für die Platzierung von vielen in ihrem Sinne verfassten Artikeln in Zeitungen und versuchte verschiedene chilenische Verbände zu beeinflussen und für ihre Zwecke zu instrumentalisieren, darunter auch Studenten- und Frauenorganisationen.

(…)

In der Folge strichen die USA sämtliche Hilfsmittel für Chile und verhängten nach der Verstaatlichung mit 14 anderen Staaten einen Kaufboykott über Kupfer. Gleichzeitig fehlten Devisen für den Import von Rohstoffen, Maschinen und Ersatzteilen, und wegen mangelhafter Investitionen der Privatunternehmen waren die Kupferbergwerke in einem maroden Zustand. All diese Faktoren trugen dazu bei, dass Chile 1971 ein Zahlungsbilanzdefizit von 26 Milliarden US-Dollar hatte. Man deckte die Schulden, indem man Geld druckte. Dadurch verfünffachte sich die Geldmenge, und die Inflationsrate überstieg 300 %, um 1973 auf fast 700 % zu steigen.

(…) (Dies war der Anfang vom Ende…)

Im Herbst 1972 streikten etliche Berufsgruppen, darunter Lastwagenfahrer, Bankangestellte, Arbeiter und Studenten, um eine Wende in der Wirtschaftspolitik zu erzwingen. Es kam zu Straßenschlachten. Allende rief den Notstand aus. Radikale rechte Gruppen antworteten sogar mit Terror und Sabotage. Es gab in Allendes Amtszeit insgesamt sechshundert Terroranschläge auf Eisenbahnen, Brücken, Hochspannungsleitungen und Pipelines. Durch Einbindung des Militärs im November 1972 mit der Ernennung von General Carlos Prats zum Innenminister konnte der Streik beendet werden.

Die heftige Opposition ging auch auf die erfolgreiche Propaganda-Arbeit der CIA zurück. In einem Memorandum des US-Geheimdienstes heißt es, dass die konservative Tageszeitung El Mercurio und andere chilenische Zeitungen, die von der CIA finanziell unterstützt wurden, eine wichtige Rolle dabei gespielt hätten, die Voraussetzungen für den späteren Militärputsch zu schaffen. Bis 1973 hatte die CIA allein für ihre Aktivitäten in Chile insgesamt über 13 Millionen US-Dollar aufgewendet.

(…)

Als es im Juli 1973 zu neuen Streiks der Lastwagenfahrer und der Studenten mit Unterstützung weiter Kreise der konservativen Opposition kam, berief Allende weitere hochrangige Offiziere in sein Kabinett – die politische Gesinnung innerhalb des Militärs hatte sich jedoch gewendet.[8] Am 29. Juni 1973 wurde ein (erster) Putschversuch (Tanquetazo genannt) eines Panzerregiments von regierungstreuen Militärs niedergeschlagen. General Prats trat Anfang September 1973 zurück, da er die Unterstützung der Armee verloren hatte. An Stelle des zurückgetretenen Prats ernannte Allende am 25. August 1973 General Augusto Pinochet zum Oberkommandierenden des Heeres.” (Wiki)

Dies war das endgültige Ende. Am 11. September 1973 erfolgte der Putsch und La Moneda wurde bombardiert. Die weltweite Bestürzung nützte nichts. Salvador Allende beging Selbstmord.

Pinochet trieb sein Unwesen mit massiven Menschenrechtsverletzungen dank der Hilfe der Amerikaner, CIA und Chicago-Boys, bis 1988.

„Die Zeit der Diktatur lässt sich grob in fünf Phasen einteilen. Der von Staatsterror begleiteten Konsolidierung nach dem Putsch (1973–1976) folgte ein wirtschaftlicher Aufschwung und der Höhepunkt der Macht (1977–1981), bis es zu einem schweren Wirtschaftseinbruch und massiven Protesten kam (1982–1983). Dann zeigte das Regime langsam Zeichen der Liberalisierung (1984–1987); 1988–1990 kam es zu einer vom Regime kontrollierten Demokratisierung.

(…)

Im Nationalstadion von Santiago wurden die Opfer interniert, viele von ihnen gefoltert und getötet. Insgesamt wurden vermutlich etwa 3197 (gesicherte Anzahl der Opfer) bis 4000 Menschen während der Diktatur ermordet, der Großteil davon in den Wochen nach dem Putsch. Etliche Menschen verschwanden spurlos und auf bis heute ungeklärte Weise. Etwa 20.000 Menschen flohen noch 1973 ins Ausland. Insgesamt wanderten während der Militärdiktatur eine Million Chilenen aus.

(…)

Mit dem wirtschaftlichen Aufschwung der achtziger Jahre beruhigte sich Chile auch politisch wieder. Ab 1987 durften politische Parteien wieder arbeiten. Am 5. Oktober 1988 stimmte bei einer von der Verfassung vorgesehenen Volksabstimmung nach offiziellen Angaben eine Mehrheit von 78,39 Prozent für eine weitere (achtjährige) Amtszeit Pinochets. Erst als bemerkt wurde, dass aufgrund der Bedrohungen von Amtspersonen die Abstimmungsresultate beeinflusst wurden, wurde am 17. Oktober 1988 die Abwahl Pinochets bekannt gegeben. Wie sich herausgestellt hatte, waren bei der ersten Abstimmung 55,99 Prozent gegen eine Wiederwahl Pinochets gewesen. Nach der neuen Abstimmungsrunde mit einer Mehrheit von nun 67,85 % wurde gegen eine erneute Amtszeit Pinochets entschieden.

(…)

1989 Bei einer außerordentlich hohen Wahlbeteiligung von 90 Prozent erhielt der Christdemokrat Patricio Aylwin vom Parteienbündnis Concertación, einem breiten Mitte-links-Bündnis aus Christdemokraten, Liberalen, Sozialdemokraten und Sozialisten, 55,2 Prozent der Stimmen. Am 11. März 1990 trat Aylwin das Amt an. (…)

Rückkehr der Demokratie

Nach seiner Amtsubernahme im März 1990 begann Patricio Aylwin sofort mit Versuchen, die Macht der Militärs einzudämmen und Menschenrechtsverletzungen aufzudecken. Allerdings hatte er dabei so gut wie keinen Erfolg. Grund war zum einen die große Autonomie des Militärs, zum anderen die von Pinochet-Treuen besetzten Gerichte und zum dritten die rechten Parteien, die jede Verfassungsreform sofort abblockten. Zur Aufarbeitung der Menschenrechtsverletzungen wurde eine achtköpfige Wahrheitskommission (Comisión de Verdad y Reconciliación nacional (Wahrheit und Versöhnung) oder Rettig- Kommission ) eingesetzt. Sie wurde zwar vom Militär heftig kritisiert, hatte aber keine Ermittlungserlaubnis, durfte keine Namen von Tätern veröffentlichen und so kam es auch zu keiner einzigen Anklage. Außerdem wurden nur Menschenrechtsverletzungen verfolgt, „die das Zusammenleben am schwersten beeinträchtigen“. Folter fiel offensichtlich nicht in diese Kategorie, ermittelt wurde nur bei Mord und Verschwindenlassen. Immerhin veröffentlichte sie die biographischen Daten von 2279 Opfern (davon 2147 Tote), deren Schicksal endlich (von der Regierung, nicht vom Militär) anerkannt wurde. Außerdem entschuldigte sich Aylwin öffentlich und bot eine Entschädigungszahlung von etwa 200 $ im Monat. 1996 kam eine aktualisierte Version des Abschlussberichtes heraus. Die Zahl der Todesopfer beträgt nun mindestens 3197, darunter 1102 „Verschwundene“. Ein Großteil der Verbrechen fiel noch unter eine noch von den Militärjunta verfügte Amnestie für den Zeitraum von 1973 bis 1978.

(…)

Nach Patricio Aldwy wurden 1993 der Christdemokrat Eduard Frei und 1999 der Sozialist Ricardo Lagos gewählt. In dieser Zeit erfährt Chile einen deutlichen, alle Bereiche des wirtschaftlichen, sozialen und politischen Lebens betreffenden Aufschwung. 2005 gelingt es, eine neue Verfassung in Kraft zu setzen, die u.a. die Macht der Militärs einschränkt und demokratische Elemente wieder festigt. 2006 wird nach Lagos Michelle Bachelet Präsidentin. Nach einer zwischen Periode mit Sebastian Pinera (2010-2013), kommt wieder Bachel an die Macht.

2011 wurden die bereits unter Bachelet begonnen Proteste von Schülern und Studenten fortgesetzt und ausgeweitet. Gefordert wurde u.a. ein sozial gerechteres Bildungssystem.

 

Die Causa Pinochet

Im Mittelpunkt des Weltinteresses stand Chile im September 1998. Ex-Diktator Augusto Pinochet war am 10. März 1998 im Alter von 82 Jahren als Oberbefehlshaber des chilenischen Militärs zurückgetreten. Im September 1998 wurde er in London, wo er sich medizinisch behandeln ließ, verhaftet. Der spanische Untersuchungsrichter Baltasar Garzón veranlasste nach Hinweisen des Juristen Juan Garcés einen internationalen Haftbefehl, um Pinochet für Verbrechen an spanischen Staatsbürgern in den Tagen nach dem Putsch von 1973 zur Verantwortung zu ziehen. Pinochet wurde in London unter Hausarrest gestellt, seine Ärzte bescheinigten ihm aufgrund seines Alters Verhandlungsunfähigkeit. Ein langwieriges Tauziehen über die Verhandlungsfähigkeit des Ex-Diktators begann. Nach 17 Monaten durfte er im März 2000 nach Santiago zurückkehren.

Am 3. März 2000 kehrte Pinochet nach Chile zurück und wurde mit militärischen Ehren empfangen. Menschenrechtsgruppen und die Angehörigen der Opfer von Pinochets Diktatur antworteten mit Protesten und Mahnwachen, allerdings gab es auch Solidaritätskundgebungen mit mehreren hundert Teilnehmern. Zwei Tage später entzog das Berufungsgericht in Santiago auf Antrag des Ermittlungsrichters Juan Guzmán Tapia mit 13:9 Stimmen Pinochet seine Immunität. Es ging um die so genannte „Todeskarawane“, den Mord an 75 Regimegegnern im Oktober 1973, von denen 18 Leichname noch nicht aufgetaucht waren und die deshalb nicht unter das Amnestiegesetz von 1978 fielen. Eine Spezialeinheit der Armee unter dem Kommando des Generals Arellano Stark, dem Delegierten Pinochets, hatte die Menschen ermordet.

Am 1. Dezember 2000 – inzwischen war der Sozialist Lagos als Präsident gewählt worden – leitete Guzmán überraschend das Verfahren ein. Am 5. Januar 2001 veröffentlichte das Militär einen Bericht, in dem es erstmals das Schicksal der Verschwundenen untersuchte (allerdings nur von 200 von mehr als 1100): Angeblich wurden von den 18 Leichnamen 17 über dem Meer abgeworfen, was sich allerdings nicht belegen ließ. Die Militärs verlangten trotzdem die Einstellung nach dem Amnestiegesetz.

Die Anwälte setzten trotzdem weiter auf die Prozessunfähigkeit. Am 18. Januar attestierte ein Ärzteteam „subkortikale, gefäßbedingte Demenz“ – in Chile (anders als in Großbritannien) zu wenig für eine Verfahrensunfähigkeit. Am 29. Januar erhob Guzmán Anklage und löste eine Solidaritätswelle unter Generälen und RN- und UDI-Politikern aus. Am 12. März kam Pinochet gegen eine Kaution von 2.000.000 Pesos (etwa 3500 Euro) frei. Im Juli 2001 erklärte ein Gericht Pinochet für nicht verhandlungsfähig. Damit war das endgültige Ende der juristischen Verfolgung Pinochets wegen Menschenrechtsverletzungen beschlossen. Allerdings bedeutete dies gleichzeitig das Ende der politischen Karriere als Senator auf Lebenszeit. Am 15. September 2005 wurde die Aufhebung der Immunität von Pinochet durch das Oberste Gericht bestätigt.” (Wiki) Pinochet starb 2002.

 

XXII Peru: cenni sulla storia  (13.1.17)

In epoca precolombiano, il Peru vide il dominio dapprima del popolo Moche a cui fece seguito la cultura Chimù (cfr. il Diario) che scomparve con l’avvento degli Inca. Con la conquista spagnola praticamente quasi tutta la costa sul Pacifico dalla California fino al Chile venne integrata in un’unica e uniforme epoca coloniale (cfr. il capitolo sul Sudamerica). Lima divenne nel 1542 la capitale del vicereame del Peru.

Con le lotte per l’indipendenza si andarono gradualmente configurando gli stati odierni. Già verso la fine del Settecento erano iniziate diverse rivolte, tra l’altro quella degli indigeni guidata da Tupac Amaru nel 1780 che venne facilmente repressa dagli spagnoli. Ma le insurrezioni si moltiplicarono, alimentate ideologicamente anche dalle rivoluzioni americana e francese. Finalmente nel 1821 l’argentino José de San Martin, assieme al venezuelano Simon Bolivar, entrembi figure chiave delle insurrezioni contro il dominio spagnolo, proclamò l’indipendenza del Peru a Lima e nel 1824 gli spagnoli vennero definitivamente sconfitti nella battaglia di Ayacucho. Seguirono decenni di instabilità, tra l’altro a seguito dei tentativi del generale boliviano Santa Cruz di reinstaurare il regno degli Inca e a seguito di una lunga guerra con il Chile, conclusasi nel 1883. Gradualmente le condizioni economiche cominciarono a migliorare, grazie anche a ricche risorse minerarie.

Nel corso del Novecento si sono alternate numerose dittature, di destra e di sinistra, molte militari. Già nel 1924 campesinos e studenti fondarono l’APRA, un partito di sinistra che ebbe a lungo un ruolo importante. Nel 1968 il generale di sinistra Alvarado conquista il potere con un colpo di stato. Le sue riforme, una sorta di ‘rivoluzione peruana’, hanno un certo successo, ma nel 1975 viene destituito dal suo stesso primo ministro. Nel 1978 si tengono elezioni per l’assemblea costituente, con l’APRA che riemerge accanto ai democristiani. Nel 1980 si va al voto e vince il democristiano Terry. Cinque anni dopo accede al potere l’aprista corrotto Alan Garcia Perez. Nel 1990 viene eletto Alberto Fujimori che verrà poi perseguito per corruzione e violazione dei diritti mani nella lotta contro i guerrigliero di Sendero luminoso. Seguiranno il primo presidente indigeno Toledo, poi si candiderà la figlia di Fujimori Keika che però nel 2011 non riesce a spuntarla su Humala, il candidato di sinistra. Ma anche Humala al secondo turno lascia il passo Pedro Pablo Kucizynski, l’attuale presidente.

La storia recente del Peru è stata contraddistinta dall’apparizione del gruppo terrorista Sendero luminoso, fondato nel 1982 da Abimazel Guzman. In una guerriglia senza quartiere con i militari vi furono 30000 vittime. Negli anni ’90 Fujimori adottò una repressione sistematica che portò alla scomparsa del gruppo. Tuttavia nel 1996, il gruppo Tupac Amaru, che si pensava scomparso, prese in ostaggio 400 ospiti dell’ambasciata giapponese che vennero liberati dopo 4 mesi.

L’attuale situazione non sempra essere particolarmente promettente. Il Peru resta uno dei paesi più poveri, non solo del Sudamerica, e con ca. 13000 USD di PIL procapite si posiziona oltre la centesima posizione nel confronto mondiale. La povertà l si percepisce ovunque, ma ciò che più sorprende è lo stato di decadimento osservabile tanto nelle città come nelle campagne. Non si ha l’impressione, ad esempio a differenza dell’Ecuador, che questo paese stia cercando di uscire dal suo stato per raggiungere un certo benessere.

 

XXI Ecuador: Eine Geschichte wie aus dem südamerikanischen Bilderbuch…  (25.12.2016)

(teilweise aus Wiki)

„Die wechselreiche Geschichte Ecuadors lässt sich in acht Perioden einteilen. Die Region wurde bis ins 15. Jahrhundert von mehreren unabhängigen Völkern bewohnt. Für etwa ein Jahrhundert herrschten die Inkas über das Gebiet. Zwischen den 1530er und den 1820er Jahren war Ecuador spanische Kolonie. Zwischen 1810 und 1830 erlebte das Land den Unabhängigkeitskrieg und wurde Teil von Großkolumbien und danach unabhängiger Staat. Mitte des 19. Jahrhunderts bis in die 1920er Jahre war das Land geprägt durch die Auseinandersetzungen zwischen „konservativen“ Kräften aus der Sierra und „liberalen“ Fraktionen aus der Costa , wobei der Exportboom von Kakao für eine dominante Stellung letzterer sorgte. Zwischen 1925 und 1947 war Ecuador geprägt von politischem Chaos, dem Zusammenbruch der Kakaoindustrie sowie der Weltwirtschaftskrise . Von 1947 bis in die 1960er Jahre erlebte das Land einen ökonomischen Aufschwung dank dem Anbau von Bananen und ersten Ansätzen einer Industrialisierung . Seit 1973 ermöglicht die Erdöl -Produktion eine gewisse wirtschaftliche und politische Stabilität.

(…)
• Im 15. Jahrhundert eroberten die Inka in langwierigen Kämpfen gegen die Quitu-Cara das Gebiet bis in die Gegend von Pasto (heute Sudkolumbien) und etablierten den Hauptort Quito als nördliche Hauptstadt ihres Reiches. Von hier aus errang der letzte Inkakaiser Atahualpa in einem kurzen Bürgerkrieg gegen seinen Bruder Huáscar die Macht. Danach folgte das Ende des Inkareiches: Pizzarro bezwang Atahualpa (natürlich auf trügerischer Weise…) und liess ihn hinrichten.

• Die Kolonialzeit fand ihren Abschluss mit der Schlacht am Pichincha (24. Mai 1822), die neben der Unabhängigkeit die Einverleibung als südliches Departement von Bolívars Großkolumbien brachte, das die Gebiete der heutigen Staaten Ecuador, Kolumbien, Venezuela und Panamaumfasste. Die Republik Ecuador entstand im Jahre 1830 aus dem Zerfall Großkolumbiens.
Die Namensgebung geht auf die französisch-spanische Expedition (unter Beteiligung von Charles Marie de La Condamine , Pierre Bouguer , Louis Godin , sowie von Jorge Juan und Antonio de Ulloa ) zurück, die im 18. Jahrhundert unter anderem zum ersten Mal die genaue Lage des Äquators vermessen hatte.

• 1832 besetzte und annektierte Ecuador die bis dahin mehr oder weniger unbewohnten und herrenlosen Galápagos-Inseln, die in etwa 1000 km Entfernung vor der Kuste des Landes liegen. Drei Jahre später, 1835, besuchte Charles Darwin im Rahmen der britischen Expedition der HMS Beagle die berühmte Inselgruppe und sammelte dort Erkenntnisse, die ihn später zur Entwicklung der Evolutionstheorie fuhrten.
• Die zweite Hälfte des 19. Jahrhunderts war geprägt durch die Auseinandersetzungen zwischen konservativen und liberalen politischen Kräften.

• 1895 kam durch einen Putsch in Guayaquil der bereits seit über 20 Jahren an Aufständen gegen verschiedene Regierungen beteiligte General Eloy Alfaro an die Macht, und mit ihm begann die Epoche der Liberalen Revolution in Ecuador, die ein bildungs- und infrastrukturorientiertes Modernisierungsprogramm implementiert: Alfaro und seine Mitstreiter säkularisierten konsequent den ecuadorianischen Staat: Sie konfiszierten Kirchengüter, führten Religionsfreiheit und Zivilehe ein und stärkten die Oberhoheit des Staates im Bildungswesen. Alfaro wurde 1911 durch einen Putsch gestürzt, nachdem er versucht hatte, seinen gewählten Nachfolger Estrada zum Rückzug zu bewegen, um weiter regieren zu können. 1912 wurde er nach einem erneuten Versuch, die Macht zu ergreifen, festgenommen und gefangen gesetzt, im Gefängnis ermordet und sein Leichnam öffentlich verbrannt. Danach brach in mehr oder weniger permanentes Chaos aus…

(…)
Nach der Liberalen Revolution lösten sich auch im 20. Jahrhundert gewählte und durch Militärputsch installierte Regierungen in raschem Wechsel ab, eine Festigung demokratischer Institutionen gelang durch den Einfluss des ecuadorianischen Militärs kaum. Im Durchschnitt wurde die jeweilige Regierung etwa alle eineinhalb Jahre durch einen militärischen Putsch oder zivilen Staatsstreich gestürzt, was Ecuador den Ruf einer klassischen Bananenrepublik einbrachte. Seit den 1940er Jahren wurden in Ecuador Erdölfelder gefunden und gefördert, was besonders in den 1970er Jahren zu einer
Phase wirtschaftlichen Wachstums und zu einer gewissen Stabilität, allerdings meist unter Militärregierungen, fuhrte.

• Die letzten Jahrzehnten waren jedoch wieder politische sehr unstabil. Dazu beigetragen haben auch zwei El Nino-Zerstörungen und einige Erdbeben sowie die ökonomische Krise von 1998. Diese leitete u.a. den Untergang der eigenen Währung, den Sucre, und den 2002 unter weit verbreiteten Protesten vollzogenen Übergang zum Dollar ein. In dieser Zeit wanderten eine halbe Million Ecuadorianer aus (Bevölkerung 2013 15.7 Mio.). Im Gegensatz zu Kolumbien herrschte aber trotz immer ein relativer innerer Frieden. 2007 kam der aktuelle sozialistische Präsident Correa an die Macht. Ihm gelang nach turbulenten Zeiten die Wiederwahl. Correa hat die öffentlichen Infrastrukturen gefördert, Bildung, Gesundheit und den Strassenbau. Im nächsten Jahr stehen Wahlen an. Unser Taxichauffeur meinte, er werde nicht wiedergewählt da er ‚queimado’ sei… In Wahrheit stellt er sich nicht mehr zur Wahl!

 

XX Sudamerica: cenni alla storia del continente  (18.12.2016)

Ad Amerigo Vespucci, il navigatore fiorentino che, con Cristoforo Colombo, esplorò il Nuovo Mondo, si ispira il nome alle Americhe. L’America del Sud viene culturalmente e politicamente completata dall’America centrale che geograficamente fa parte del nord. Insieme vengono definite ‘America latina’.

Come già s’è visto in precedenza (Cfr. America II gli indiani) l’espansione dell’homo sapiens verso il continente americano precedette di diverse migliaia di anni la scoperta di Colombo. homo-sapiens-spreading

Verosimilmente lo stretto di Bering venne superato già oltre 14000 anni fa e gradualmente l’uomo si spinse verso sud. Inoltre i Vichinghi salparono sul continente attorno all’anno mille, ma la notizia non si diffuse. Così l’onore della scoperta spetta a Colombo e quello dell’esplorazione delle coste del Sudamerica a Vespucci, emulati da una folta schiera di altri navigatori e soprattutto ‘conquistadores’ spagnoli, fra cui spiccano i nomi di Cortez che occupò l’odierno Messico sottomettendo gli Atztechi, e Pizzarro che dominò il Perù e gli Incas. In nome del potere, della civilizzazione e della religione, gli esploratori si erano messi sulle tracce dell’eldorado, mitico luogo dalle ricchezze illimitate.

Infatti, sia Cortez che Pizzarro, al cospetto degli ori degli Atztechi e degli Inca, pensavano di averlo trovato. Ma poi l’avidità delle patrie europee e la domanda di ricchezze non cessarono di crescere e la ricerca delle miniere continuò ininterrottamente, permettendo alla Spagna di disporre di immense risorse con cui supportare la sua posizione egemone sul vecchio continente. Così l’espansione soprattutto degli spagnoli e dei portoghesi non conobbe limiti. La suddivisione del continente era avvenuta già nel 1494 per mano del papa Alessandro VI, con l’attribuzione della parte est al Portogallo e della parte Ovest alla Spagna. Anche i francesi e gli olandesi occuparono una parte delle coste ad est. Nel 1754 una parte del continente era già stato esplorata e la presenza europea si presentava come segue:

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Il regno degli Inca si espandeva su buona parte della costa sul Pacifico e sugli altipiani:

schermata-2016-12-08-alle-12-09-11Il lavoro nelle mine di argento e di oro, in condizioni disumane, contribuì, assieme alle guerre e alle malattie, alla decimazione della popolazione indigena. Di conseguenza per far fronte al bisogno di manodopera ben presto arrivarono gli schiavi africani.Per poter controllare l’immenso territorio, gli spagnoli crearono ben presto due vicereami, uno a nord con il Messico e il Venezuela, e uno a sud, con Lima come capitale. Gradualmente venne a configurarsi una società triclassista con gli spagnoli al vertice , i creoli e meticci (spagnoli mescolati con gli indigeni) quale classe media e gli indigeni alla base. Le forti immigrazioni che seguirono, in seguito molto intense nell’Ottocento, contribuirono a far sì che in Sudamerica vi sia una notevole mescolanza razziale.

All’inizio dell’Ottocento, con l’avvento di Napoleone e il conseguente indebolimento della Spagna, presero avvio le lotte di indipendenza. La decolonizzazione si fece strada velocemente, nonostante una certa resistenza dei lealisti filospagnoli. Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù, Argentina, Chile approdarono più o meno parallelamente all’indipendenza, in parte supportandosi a vicenda. Una delle figure chiave in queste lotte, conclusesi prima del 1830, fu il venezuelano Simon Bolivar.

L’indipendenza del Brasile ebbe un’evoluzione pacifica. I portoghesi la concessero nel 1822, pur mantenendo un re sul territorio. L’indipendenza definitiva seguì nel 1889.

In generale dopo l’acquisizione dell’indipendenza nei paesi sudamericani si avvia un processo di democratizzazione che ha una sua storia specifica in ognuno di essi. Una sorta di cesura si da dopo la seconda guerra mondiale, quando la violenza dilagante porta a dittature militari in buona parte dei paesi. Le conseguenze sono disastrose sotto ogni profilo, umano, economico, culturale, politico.

La tabella seguente mostra lo status politico dei diversi paesi a partire dagli anni 50.

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Tendenzialmente si osserva come le dittature siano state via via superate e sostituite in buona parte da governi di centrosinistra. Tuttavia, le crisi degli ultimi anni stanno modificando in modo anche radicale la situazione in diversi paesi. Ad esempio in Argentina, Brasile, Venezuela… (cfr. i capitoli sui singoli paesi).

 

XIX Kolumbien: Anmerkungen zur Geschichte  (7.12.2016)

I

Kolumbien hat eine Bevölkerung von 49 Millionen Einwohner und ist das drittgrösste Land Lateinamerikas nach Brasilien und Mexico. Trotz der ländlichen Beschaffenheit (die Hälfte der Landfläche ist unbewohnt) wohnt ein Grossteil (75%) in Städten, vorab Bogotà (7.7 Mio.), Medellin (3.4) und Calì (3.1.). Die meisten Einwohner sind Mestizen oder Weisse (86%), während die Afroamerikaner etwa 10% ausmachen. Dazu kommen über 80 indigene Gruppen.

Wirtschaftlich hat das Land in den letzten Jahren ein Wachstum von beinahe 5% gehabt, so verfügt es auch über einen zunehmenden Wohlstand mit einem Einkommen pro Kopf von etwa 2200 USD (Vergleich: Schweiz etwa 45000). Ein Arbeiter verdient etwa 25 USd im Tag. Die Armut ist trotz dieses relativen Wohlstandes noch sehr weit verbreitet: 2003 war noch die Hälfte der Bevölkerung von Armut betroffen, 2012 waren es 27% und die soziale Ungleichheit ist frappant, am höchsten in Lateinamerika. Diese Unterschiede sind überall auffallend…

Die Landwirtschaft, u.a. die Kafee-, Bananen- und Blumenproduktion, spielt eine wichtige ök. Rolle, neben dem Bergbau und der Energie.

II

Mit der Ankunft der Spanier im heutigen Kolumbien, begann 1499, wie überall wo Europäer eintrafen, der Untergang der einheimischen Bevölkerung. Eine leidvolle Kolonialepoche brach an. An sich muss man auch hier von einem Genozid sprechen, der sich, vor allem infolge der Immunschwäche der Bevölkerung, innerhalb von etwa 50 Jahren vollzog. Danach waren die Spanier an der karaibischen Küste etabliert: 1533 gründeten sie Cartagena, die zum wichtigsten Kolonialhafen wurde. 1538 folgte schon Sata Fè de Bogotà, die heutige Hauptstadt, damals Nueva Grenada genannt, weil der Gründer aus Granada stammte.

Gleichzeitig war der legendäre Francisco Pizarro von Süden her vorgestossen, nachdem er die Incas in Quito bereits unterworfen hatte gründete er 1536 Calì.

Kolumbien trug während der ganzen Kolonialzeit den Namen Nueva Grenada (1550-1810) und integrierte die Territorien der heutigen Panama, Venezuela und Ecuador.

Die ersten Aufstände der Landbevölkerung gab es gegen Ende des 18. Jh.. Danach kam Napoleon… Sein Zug gegen Spanien (1808) hatte u.a. den Beginn der Unabhängigkeitskriege in Südamerika zur Folge. 1811 wurden die Spanier aus Nueva Grenada ausgewiesen und nach einigen letzten Schlachten kam Simon Bolivar zum Sieg, schlussendlich 1821 in Venezuela. Damit begann die neuere Geschichte: Nueva Granada mutierte zu Gran Colombia. Danach folgte ein wirres Jahrhundert mit Kämpfen und Auseinandersetzungen zwischen konservativen, spanienfreundlichen und liberalen Kräften. Daraus resultierte die heutige politische Geographie mit den vier Ländern Kolumbien, Venezuela, Panama und Ecuador. Panama hatte sich selbständig gemacht als es darum ging, mit den USA den von Kolumbien hinausgezögerten Vertrag für den Bau des Kanals auszuhandeln.

Dank der weltweit steigenden Kaffeenachfrage kannte Kolumbien im frühen 20. Jh. einen wirtschaftlichen Aufschwung und eine neu entstehende Klasse von Plantagenbesitzern. Dies führte zu einer Periode relativen Friedens (1902-1946). 1946 siegten die Konservativen über die Liberalen, worauf die Zeit der permanenten Gewalt anbrach. 1953 kamen die Militärs an die Macht und installierten eine Diktatur bis 1957. Ein Generalstreik führte zum Machtwechsel mit einem Versöhnungsversuch zwischen Konservativen und Liberalen. Mit mässigem Erfolg, denn ab 1960 begann der Guerillakrieg, vorab mit den marxistisch sowjetisch orientierten FARC (Fuerças armadas revolucionarias de Colombia). Gleichzeitig entstanden aber auch die ELN (Ejercito del Liberation National/maoistisch) und die EPL (Ejercito popular de Liberation / prokuba). Daneben gab es noch den M-19 (Movimiento 19 de avril)…

Diese Konstellation setzte de facto die Regierung lahm und führte zu den abstrusesten Allianzen, zu einer unglaublichen Korruption und zu einem quasi permanenten Zivilkrieg, sozusagen aller gegen alle. Guter Nährboden für die Drogenbarone, die zunehmend an Macht gewannen und sich in Kartellen organisierten, hauptsächlich zwei, in Medellin unter Pablo Escobar und in Cali.

Sukzessive wurde der Drogenhandel auch zur Hauptfinanzierungsquelle für die Guerilleros, vorab die FARC, die in den 80er Jahren eine Armee von 4000 Mann unterhielt. Das Land wurde von skrupellosen Spekulanten und Farmern aufgekauft, die paramilitärische Truppen zu deren Verteidigung schufen. Dies heizte den Kampf zwischen Guerilla und Paramilitärs an, mit dem Staat als Zuschauer… Die Campesinos waren zwischendrin! Die Folge: man rechnet, dass es über 200000 Tote gab und dass 4-5 Millionen Kolumbianer im Land vertrieben wurden bzw. umsiedeln mussten.

In den 80er und 90er Jahren scheiterten alle Vermittlungs- und Befriedungsversuche, u.a unter Präsident Betancour. Die FARC schuf sich einen politischen Arm mit der Union Patriotica, die u.a. von den Paramilitärs verfolgt wurde. Escobar wurde 1993 von der Polizei umgebracht. Er hatte sich freiwillig ins Gefängnis begeben, von wo aus er den Drogenhandel steuerte. Als man ihn den USA ausliefern wollte, versuchte er zu fliehen und wurde getötet.

Trotz einer neuen Verfassung (1990) verbesserte sich die Situation kaum: Drogenkartelle, Guerilla und Paramilitärs schalteten und walteten. Die Paramilitärs brachten es zu einer 30000 Mann Armee, die Guerilla hatte 50000.

Die USA versuchten mit dem PLAN Colombia mit der Regierung zusammen zu arbeiten, um das Übel an der Wurzel zu packen und den Kokaanbau zu zerstören. Teilweise mit Erfolg. Die Anbauflächen wurden dezimiert.

2002 kam Uribe an die Macht und versuchte, dem Staat wieder Autorität zu verschaffen. Das Militär wurde verstärkt und langsam kamen die verschiedenen Gruppierungen unter Druck, allerdings mit unsäglichen Exzessen der Militärs selber, die Campesinos exekutierten, um Erfolge gegen die Guerilla vorzutäuschen. Guerilla und Parmilitärs scheinen weitgehend ausgeschaltet.

2005 wurde ein Gesetz zum Befriedungsprozess verabschiedet, das in den letzten Jahren, neuerdings unter dem Präsidenten Juan Manuel Santos, dem früheren Verteidigungsminister, zum Friedensvertrag mit der FARC geführt hat. Seit 2012 wurde in Havanna, auf neutralem Boden, geheim verhandelt. Ende September 2016 wurde der Vertrag im Beisein vieler Staatschefs unterzeichnet, danach wurde der Vertrag aber knapp am 2. Oktober abgelehnt. Die Gegner um den früheren Staatschef Uribe kritisierten die zu milden Strafen.

Nun wurde am 1. Dezember der Vetrag vom Parlament unterzeichnet. Artikel von Die Zeit:

Der Kongress in Kolumbien hat endgültig den Weg für Frieden zwischen der Regierung und der Rebellengruppe Farc freigemacht. Nach dem Senat billigte auch das Unterhaus einen überarbeiteten Friedenspakt. Das Votum fiel in beiden Kammern einstimmig aus. Die Gegner des Vertrages beteiligten sich jedoch nicht an der Abstimmung.

Das Friedensabkommen soll die politische Gewalt beenden, durch die in mehr als 50 Jahren mehr als 220.000 Menschen getötet wurden. Das von Präsident Juan Manuel Santos unterstützte Vertragswerk war in seiner ersten Version jedoch knapp in einem Referendum gescheitert.

Die noch 5.800 Kämpfer der Farc sollen noch in diesem Jahr mit der Abgabe der Waffen beginnen. Hunderte UN-Blauhelme und das Militär werden den voraussichtlich sechs Monate langen Prozess überwachen. Mit den eingeschmolzenen Waffen sollen drei Kriegsmahnmale in New York (Sitz der UN), Kuba (Ort der Friedensverhandlungen) und Kolumbien gebaut werden.

Die Guerilla kann danach mit der Gründung einer Partei beginnen, um Ziele wie eine gerechtere Landverteilung und Unterstützung der armen Landbevölkerung zu verfolgen. Als Sozialleistung soll jeder bisherige Guerillakämpfer anfangs monatlich eine Unterstützung von rund 215 US-Dollar bekommen.

(…)

Die Strafregelungen wurden nach der Ablehnung etwas verschärft. Zudem soll das Vermögen der Rebellen, die sich über Drogenhandel finanzieren, zur Entschädigung der Opfer herangezogen werden. Vor einer Woche wurde der Vertrag erneut unterzeichnet.  

Santos will nun auch mit der kleineren ELN-Guerilla ein ähnliches Abkommen schließen, um den Frieden komplett zu machen. Am 10. Dezember wird er aber zunächst in Oslo den Lohn für seine Mühen bekommen: den Friedensnobelpreis.

 

 

XVIII America V: Trump e il populismo. E ora?  (29.11.2016)

I

A letter to the NYT (11/11/16):

I am a middle-of-the-road Republican. It Joe Biden had been nominated, I would have voted for him. If Bernie Sanders had been nominated, I would have voted for him. It my next-door neighbor had been nominated, I would have voted for her. Hillary Clinton was nominated. I voted for Dondald Trump.

II

Ciò che all’osservatore esterno sembrava poter (e dover) essere solo una bizzarria del sistema politico americano (non sarebbe stato il primo, si pensi a Ross Perot), si è rivelato ben altro: una specie di tsunami che ha sorpreso i più, perlomeno chi non aveva rinunciato alla speranza in una vittoria della ragionevolezza. Eppure le cose sono andate diversamente, e non fa nessun senso rimandare alla maggioranza dei voti per Hillary e all’anacronismo del sistema dei grandi elettori. Al cospetto degli eventi politici al di là come al di qua dell’Atlantico, la ragionevolezza e la ragione, nel senso illuministico del termine, stanno dando segni di stanchezza o comunque di debolezza più o meno cronica.

È fuori di dubbio che la vittoria di Trump sia da attribuire ad una serie diversificata di fattori trovatisi a convergere e produrre un impatto insospettato. Ma il fenomeno che ha veicolato il processo di convergenza è sostanzialmente uno: l’esplosione del populismo, come la chiama la chiama John B. Judis in un ottimo istant book. A sua volta, il popolismo, quello yenkee come quello nostrano, trova un potente alleato nei mass media, quelli tradizionali come la televisione, nelle sue forme ormai degenerate, così come nei social media. Entrambe le forme di comunicazione si annoverano ormai fra i peggiori nemici della ragione e del buon senso, ma, paradossalmente, anche della conoscenza e, in aggiunta, di alcune virtù fondamentali come il rispetto dell’altro e la salvaguardia della dignità. Oscurano più che illuminare.

Ma attenzione: i media non sono di per sé la causa del fenomeno, anche se la loro corresponsabilità è evidente. Così anche il populismo non è di per se la causa, quanto piuttosto un potente amplificatore dei fenomeni di degenerazione politico-socale a cui assistiamo negli USA come nella vecchia Europa o in Sudamerica.

III

Ha ragione il citato Judis quando dice che il populismo è una nozione diffusa, difficile da categorizzare e quindi da comprendere. Certamente non può essere definito in termini di destra, sinistra o centro. Vi è un populismo di destra come vi è quello di sinistra. Gli esempi si sprecano, ma le elezioni americane illustrano bene la cosa nelle figure di Trump e di Sanders, così come bastano due nomi in Italia per rendere l’idea: Berlusconi e Grillo.

Vi sono tuttavia delle differenze. Il populismo di sinistra è diadico: si esprime come una lotta alle élite, alla casta, all’establishment e ai forti poteri centrali a cui attribuisce la responsabilità dei problemi. Al tempo stesso tende ad identificarsi con la classe e i gruppi degli sfruttati – schematizzando: il popolo contro i ricchi e i potenti ­–, di regola non se la prende troppo con i diversi e gli immigrati. Per contro il populismo di destra è triadico: siccome i suoi fautori sono in genere essi pure parte o quantomeno espressione di un’élite privilegiata, devono tenere un profilo più basso nella lotta all’establishment e scagliarsi al tempo stesso contro una terza componente, di solito i diversi e gli immigrati, quindi il popolo contro i ricchi e i potenti, ma anche contro gli immigrati.

In America lo schema è emerso con particolare evidenza, quando la ‘gente’ ha cominciato ad accreditare l’idea che i democratici pagano i messicani per avere il loro voto e quindi poter mantenere potere e privilegi!

Al di là delle differenze, il populismo si caratterizza comunque per alcuni tratti abbastanza evidenti:

  • • anzitutto sfugge la ragione come il diavolo l’acqua santa. Non è la comprensione dei problemi o l’argomentare che contano, più semplicemente a contare sono le credenze e i pregiudizi facili e di regola connessi con l’attribuzione delle responsabilità a qualcuno visto come avversario o nemico, meglio se discreditabile sul piano personale. A proposito: Trump ha ammesso di aver cercato di capire cosa fosse l’Obama Care quattro giorni dopo le votazioni:

NEW YORK (The Borowitz Report)—Speaking to reporters late Friday night, President-elect Donald Trump revealed that he had Googled Obamacare for the first time earlier in the day.
“I Googled it, and, I must say, I was surprised,” he said. “There was a lot in it that really made sense, to be honest.”
He said that he regretted that the frenetic pace of the presidential campaign had prevented him from Googling Obamacare earlier. “You’re always running, running, running,” he said. “There were so many times that I made a mental note to Google Obamacare but I just never got around to it.”

  • • il populista doc si interroga su cosa pensa la cosiddetta gente e poi dice quello che la vuole sentire. Trump si è rivelato un maestro in tal senso e ha avuto la capacità di non mollare, in nessuno momento. Come un pifferaio, sicuro che la classe media americana, voleva sentire quello che diceva, ha fatto danzare i mass media come e quanto a voluto. Analogamente a Berlusconi, anche gli scandali a sfondo sessuale non hanno avuto che un’incidenza minima, anzi hanno confermato il mondo dei sogni dello yenkee e comunque lasciato indifferenti buona parte delle donne. Razzismo e misoginia possono benissimo accasarsi nel populismo.

  • • il populista ha scarsa considerazione delle istituzioni democratiche. A differenza dei dittatori (vedi Erdogan, per fare un esempio), si muove dentro l’impianto democratico, ma non apprezza il parlamento (che vorrebbe neutralizzare a favore della vox populi, cfr. Blocher) e non apprezza soprattutto l’indipendenza dei tre poteri, in particolare quello giuridico. Più in generale, il populista discredita le istituzioni e l’amministrazione, così ad esempio non da credito alle statistiche.

  • • il populista è protezionista, quindi fondamentalmente contro gli accordi di libero mercato e contro la libera circolazione delle persone, perché queste mettono in gioco i posti di lavoro dei cosiddetti ‘indigeni’.

  • • il populista gioca con la socialità, di regola è per il salario minimo, le assicurazioni per tutti, ad eccezione degli stranieri… Anche perché fa affidamento al meccanismo secondo cui per la classe media “se gli altri (gli stranieri o i poveracci) stanno meglio, allora necessariamente io sto peggio”…

  • • il populista rifugge la diversità ed è tendenzialmente nazionalista: l’immigrazione viene dipinta come un pericolo mortale per l’identità. Comunque di regola non si professa esplicitamente razzista…. È sempre interessante notare come in Europa, in Svizzera e in America di regola sono le aree che meno hanno a che fare con l’immigrazione a manifestare le resistenze più forti…

  • • il populista gioca con il miraggio dell’uomo forte, capace di mettere a posto le cose. Molte donne statunitensi hanno espresso il desiderio di avere finalmente un ‘boss’ alla testa dell’America…

Nonostante tutti questi fattori che, a geometria variabile, secondo la tradizione culturale e la storia dei rispettivi paesi, non si può dire che i populisti siano fascisti. Cero, un alone fascistoide li accompagna e a volte emerge, ma sostanzialmente, si muovono dentro le istituzioni democratiche. Per contro è ovvio che il rischio di degenerazione è forte bastano pochi passi per raggiungere la dittatura. Infatti, le tentazioni antidemocratiche sono ben camuffate e, come si può vedere in Ungheria o in Turchia, l’uomo forte non ci mette molto ad emergere.

IV

È interessante notare come sia proprio l’America ad aver dato i natali al populismo. In un certo senso il successo di Trump non è che l’ultimo capitolo di una lunga tradizione iniziata con la costituzione del ‘People’s Party’ nel 1891 e, appunto, con l’uso della nozione di ‘populista’. Nella storia americana recente il populismo ha avuto rappresentanti notori in George Wallace, Ros Perot, Pat Buchanan e da ultimo nel Tea Party. Solo negli ultimi decenni si è diffuso anche in Europa, dove però i suoi fautori stanno acquisendo un potere ragguardevole, e sembrano in grado di prevalere e mettere in pericolo la democrazia e l’Unione Europea.

Negli USA il populismo intanto ha prevalso e con esso la parte più retriva e meno ragionevole del popolo americano. Che cosa succederà? Come detto, i fattori all’origine del risultato sono molteplici. Direi che si possono raggruppare in due categorie. Da un lato i problemi reali, soprattutto quelli economici, dall’altro lato quelli culturali, di cui alcuni tipici per la cultura americana (cfr. l parabola “E il buon Dio creò gli americani….”, alla pagina Cultura).

Che un repubblicano scriva una lettera del tenore inequivocabile come quella riportata all’inizio di queste annotazioni è significativo. Nei confronti di Hillary Clinton si è diffusa non solo diffidenza, ma anche una sorta di ostilità e di odio, comprensibile solo con il fatto che da un lato rappresenta quella classe politica ritenuta responsabile di tutti i mali, ma dall’altro lato è donna. Per i repubblicani bianchi yenkee votare una donna avrebbe significato rompere in pochi anni con un secondo tabu: già non hanno potuto digerire Obama quale primo presidente nero, ora anche una donna sarebbe stato decisamente troppo. L’identità dell’americano medio, fondata su razzismo e misoginia, oltre che sul mito dell’automobile e sulla superiorità americana (‘make America, that means make ME, great again…) , sarebbe andata definitivamente in pezzi…

Ma, al di là di questi aspetti specificamente americani, occorre riflettere sul ruolo delle élites politiche in generale. Soprattutto sulla loro connivenza manifestatasi ,negli ultimi decenni, con un sistema economico che ha prodotto si ricchezza, ma anche degli squilibri insopportabili, in America, in Europa e nel resto del mondo. Occorre riflettere sulle difficoltà nel contenere l’avanzata irrazionale delle nuove tecnologie della comunicazione che stanno originando un vero e proprio mutamento antropologico. I problemi non sono ovviamente più nazionali, ma globali. Concernono il divario tra ricchi e poveri, i conflitti che stanno devastando parti del mondo e alimentando emigrazioni di massa, l’assurdità di un sistema economico deregolamentato che subisce manifestamente gli effetti nefasti dei mercati finanziari, le derive e anche i regressi dei sistemi formativi, il carico ambientale… A proposto dei problemi ecologici, in America non esiste uno straccio di sensibilità!

V

L’esplosione populista è un segnale grave. È la reazione della gente, perlopiù irrazionale, ma sempre reazione sfruttata e strumentalizzata da politici in buona parte irresponsabili e avidi di potere, ma anche resa possibile da una ‘classe politica’ e da sistemi politici che, nella maggior parte dei paesi occidentali, non sembrano più in grado di assicurare soluzioni ragionevoli, equilibrate e accettabili dalla ‘gente’, in parte perché corrotti, disonesti e più attenti ai propri interessi che a quelli delle comunità.

Eppure alla ragione non c’è alternativa. O riusciamo a ravvivare i sistemi educativi (purtroppo il virus delle competenze non faciliterà il compito nei prossimi tempi…), a raddrizzare i sistemi di comunicazione di massa, a riordinare i sistemi economici, soprattutto le componenti finanziarie, a ridare forza ei sistemi democratici e al controllo dei poteri, a trovare soluzioni per i problemi della migrazione o altrimenti la ragione andrà ulteriormente alla deriva, politicamente e tecnologicamente, aprendo le porte alle dittature e alla distruzione di cui abbiamo esempi significativi un po’ ovunque e in particolare in Medio Oriente.

L’irrazionalità

di chi voterebbe la candidata della porta accanto e vota Trump piuttosto che Hillary Clinton ha qualcosa di

sinistramente razionale…

 

XVII America IV: Der Aufstieg Amerikas zr Weltmacht / L’america diventa potenza mondiale  (24.11.2016)

I

Ich hatte den ersten historischen Hintergrundbericht über Amerika (Vgl. Amerika I) wie folgt abgeschlossen:

Nach dem Bürgerkrieg war die künftige Entwicklung der USA unwiderruflich vorgezeichnet. Die unendlichen Ressourcen des Halbkontinents, aber auch der Umstand, dass ein Territorium besetzt wurde, das vom Atlantik zum Pazifik reichte und im Norden wie im Süden keine wirkliche Feinde zu befürchten waren hat das Schicksal der künftigen Weltmacht im Voraus geprägt.

Abenteuerlust, Sinn fürs ‚business’ sowie der missionarische, religiös begründete Eifer sind die Grundfesten einer Volkeidentität, die sich in knapp 200 Jahren herausgebildet hat und im Verlaufe des 20. Jh. dank der herausragenden in zwei Weltkriegen gespielten Rolle und dank dem beinahe unbegrenzten wirtschaftlichen Erfolg eine eindrückliche Bestätigung fand.

Im Nachhinein muss ich den drei Schlagwörtern ­ – Abenteuerlust, Businesssinn und religiöser Eifer – ein Viertes, ebenso wichtiges hinzufügen: Skrupellosigkeit. Ohne diese Dimension des individualistischen Verhaltens der meisten Wirtschaftskapitäne zu berücksichtigen, wäre der unglaubliche ökonomische Aufstieg des amerikanischen Raubkapitalismus kaum zu erklären und zu verstehen. Die Räuberbarone, wie sie bezeichnet wurden, profilieren sich nicht nur als zwiespältige, aber durchaus nachahmenswerte Vorbilder des mythischen Aufstiegs von der Gosse, sie festigen auch die Vorstellung, das alles dem individuellen Erfolg untergeordnet werden kann und dass im sozialen und ökonomischen Leben eigentlich nur der ‚fitteste’ überlebt. Die Anlehnung an den biologischen Darwinismus ist evident und die philosophisch-ideologische Legitimierung seiner sozialen Version liefert Herbert Spencer, der englische Philosoph, dessen Werke in der zweiten Hälfte des 19. Jh. zu den meistgelesenen Texten seitens der amerikanischen Elite gehören. Dazu kommt natürlich, dass generell Reichtum von den meisten protestantischen Kirchen als berechtigter Ausdruck guter Arbeit und des Wohlwollens Gottes gilt.

II

Mit diesen Voraussetzungen konnte das Grosskapital ungehindert seinen räuberischen Weg gehen, denn auch die Politik wirkte bei ihren Zähmungsversuchen, etwa bei der Verhinderung von Kartellabsprachen, nur zaghaft.

Die Rahmenbedingungen waren nahezu optimal und die verfügbaren Ressourcen nahezu immens:

  • die politischen Bedingungen hatten sich nach dem Bürgerkrieg einigermassen beruhigt, der Binnenmarkt entwickelte sich ungehindert, u.a. dank dem Bau der transkontinentalen Bahnen und eines dichten Telegraphennetzes;

  • die Bevölkerung wuchs und wuchs: zwischen 1865 und 1900 verdoppelte sich die Anzahl der Einwohner auf 76 Millionen, nicht zuletzt dank der Masseneinwanderung.

  • die natürlichen Ressourcen, Eisenerz, Kohle, Öl, Gold, standen bereit und mussten sozusagen nur abgeholt werden, denn der Widerstand der Ureinwohner war definitiv gebrochen;

  • die Landwirtschaft florierte, dank den grenzenlosen Territorien, die verfügbar waren. Im Gegensatz zur Industrialisierung in England oder auch in Europa gab es hier keinen Rückgang der Landwirtschaft und auch keine Abwanderung von den ländlichen Gegenden mit den damit verbundenen sozialen Spannungen. Im Gegenteil: Industrialisierung und Landwirtschaft regten sich gegenseitig an;

  • trotz Einwanderung waren Arbeitskräfte beinahe Mangelwahre, dafür ziemlich einfach zu zähmen, auch weil sie untereinander, getrennt nach europäischer Herkunft, kaum zu Einheit fanden, und wurden dementsprechend auch schamlos ausgebeutet, um die Industrialisierung zu forcieren;

  • nicht zuletzt wurde die Entwicklung von einer beispiellosen Innovativkraft, die einem intensiven pragmatischen Positivismus verschrieben war: Erfindergeister hatten keine Mühe, ihre Ideen umzusetzen.

III

In diesem Kontext schlägt die Stunde der hinlänglich bekannten, grosskapitalistischen Räuberbarone: William H. Vanderbilt und Edward H. Harrimann, die Eisenbahnmagnaten; Jay Gould, der rücksichtslose, dank Richterbestechung und Börsenmanipulation erfolgreiche Spekulant; Andrew Carnegie, der das Stahlgeschäft dank Ausbeutung der Arbeiter und systematischer Ausschaltung der Konkurrenten dominiert; John D. Rockefeller, der Ölindustrielle, der seine Konkurrenten mit allen Mitteln in die Knie zwingt, um ihre Firmen aufkaufen zu können; J. P. Morgan, der Banker, der alles unter seine Kontrolle bringt und am Schluss auch noch die Stahlindustrie von Carnegie aufkaufen wird.

Lügen, Tricks, Bestechung und Korruption, Börsenmanipulation und v.a. Monopolbildung und Ausbeutung der Arbeitskraft, der Weissen wie der Schwarzen: Dies alles ist an der Tagesordnung. Gepaart mit der Tatkraft der Kapitalisten führt es zu einer beispiellosen Entwicklung der Industrie und der Landwirtschaft, der Infrastrukturen und der Städtebildung. Reichtum breitet sich im oberen Segment aus, während die Armen mit der Hoffnung leben, eines Tages auch aufsteigen zu können. Die Elite trumpft auf mit ostentativer Verschwendung und mit Prunk auf (dazu vermittelt die Lektüre von Great Gatsby von S. Fitzgerald einen bemerkenswerten Einblick).

Und dennoch, irgendwie stellt sich ein Gleichgewicht ein. Das politische System scheint sich zu bewähren. Die wirklich Armen in den Slums und auf dem Lande lassen sich wie die Kriminalität unter Kontrolle bringen, zwar mit Mühe, aber zumindest so, dass sich eine gemeinsame Identität wie eine Kappe, beschützend und Einheit stiftend über die USA ausbreiten kann. Dazu tragen natürlich sowohl die Herausbildung einer relativ reichen weissen Mittelschicht, die sich bald den mythischen Ford T leisten kann, als auch das erhabene Gefühl, die Welt dominieren zu können. Die grosse Krise Ende der 20er Jahre verhindert nicht, dass sich diese Dominanz dann auch tatsächlich wirtschaftlich und militärisch festigen und allmählich auch zu einer Art kulturellen Kolonisierung vorerst der westlichen, danach auch der übrigen Welt führen kann. Dazu dienen nicht nur die englische Sprache, sondern auch sehr erfolgreiche Konsumgüter wie der Kaugummi und das Coca Cola.

Die USA werden so nach einer knapp mehr als 200jährigen Geschichte weltweit zum entscheidenden politischen, ökonomischen und kulturellen Faktor. Nach dem zweiten Weltkrieg wird die Welt in Einflusssphären eingeteilt und die Balance des Schreckens stellt sich ein. Europa muss sich von zwei dramatischen Kriegen erholen, politisch, ökonomisch, aber auch kulturell. Währenddessen die USA auf Wolke sieben schweben und ihre Vormachtstellung auskosten…

 

XVI America III: Una parabola: quando il buon Dio creò l’America e gli americani  / Als der liebe Gott Amerika und die Amerikaner schuf  (22.11.2016)

Da quando aveva creato il cielo, la terra, Adamo ed Eva e gli uomini era già passato parecchio tempo. Il buon Dio, seduto alla sua celestiale scrivania, stava contemplando il creato attraverso l’immensa finestra del suo ufficio e ragionava su un rapporto interno, di quelli top secret, appena passatogli da Pietro. Oggetto dell’esteso fascicolo era la situazione nel grande subcontinente nordamericano. Gli esploratori di Pietro vi avevano identificato una situazione poco rallegrante. Dopo tanto tempo pareva che gli abitanti, inuit ed esquimesi al nord e gli indiani pellerossa che vivevano nelle praterie e nei boschi del resto del paese, non riuscissero a cavare il classico ‘ragno dal buco’. Mentre negli altri continenti era tutto un brulicare di iniziative, di sviluppo, di progresso, qui la cultura e il modo di vivere sembravano ristagnare. Quali possibili ragioni venivano addotte per gli abitanti del nord le condizioni climatiche proibitive, per gli indiani forse un’eccessiva sudditanza nei confronti degli sciamani che con le loro bizzarre idee alimentavano più le contese fratricide tra le diverse tribù che non la volontà di far progredire le condizioni di vita…

Così, il buon Dio, riflettendo sul dafarsi, ebbe un’idea. Si disse: “Voglio creare gli americani”. Senza indugi si mise all’opera e, cominciando ad esplorare le incognite che avrebbe potuto incontrare, ebbe sentore di un problema fondamentale. Gli americani con il loro carattere avventuriero e la loro indole votata un po’ tanto all’arroganza e alla spregiudicatezza qualche inconveniente glielo avrebbero potuto causare. È qui che gli balenò una seconda idea, ancora più geniale della prima. Si disse: “Agli americani occorre dare un bel giocattolo col quale si possano divertire e trastullarsi e pensò all’automobile.” Sì, proprio l’automobile, perché dandone una ad ognuno sarebbero scomparse buona parte delle ragioni per litigare. Era un po’ un’idea come quella di mio nonno che, quando guardava il calcio alla tele, diceva: “Ma diano una palla ad ognuno che così smettono di bisticciare.”

Il buon Dio fece chiamare Pietro e gli sottomise l’idea, sottolineando che le macchine avrebbero dovuto essere grandi e rumorose, in ogni caso avere almeno cinque litri di cilindrata, così da poter produrre dei rombi assordanti e consumare molta benzina. Pietro fece sulle prime una faccia corrucciata e si permise di chiedere: “Ma dimmi, buon Dio, perché questa fattispecie?” “Vedi”, gli rispose il buon Dio, “le macchine devono essere commisurate agli immensi spazi del Nordamerica e sono certo che un po’ di fracasso farà divertire un mondo gli yenkee. Ecco perché non avrebbero senso alcuno dei limiti fonici come ci sono ad esempio in Europa. E per la benzina non preoccuparti. Forse riusciamo a convincere John Davison Rockefeller in modo che provveda a sviluppare un’immensa industria petrolifera, in grado sicuramente di soddisfare ogni necessità di benzina ad un prezzo assai modico, in ogni caso attorno ai due dollari al gallone, poco più di 50 centesimi al litro.”

Pietro pareva un po’ rabbuiato, ma poi manifestò il proprio entusiasmo e promise di occuparsi della faccenda, rendendo particolarmente contento il buon Dio. “Comunque”, disse, “dovresti essere meno rigido sulla cilindrata, perché altrimenti arrischi problemi inutili. Infatti, oltre agli americani cosiddetti WASP (White Anglo-Saxon Protestant), in America ci saranno anche un sacco di black africani, originariamente schiavi, e poi una miriade di latinos, perlopiù poveracci che fuggono dal Messico. Se non dai un giocattolo anche a loro, arrischi disordini sociali a non finire…”. “Sì”, rispose il buon Dio dopo un attimo di riflessione, “credo tu abbia ragione, caro Pietro, vedi dunque di procedere in questo modo e di togliere il limite minimo di cilindrata. Cerca comunque di fare in modo che anche i ‘macchinoni, pick up, SUV, Hummer e quant’altro siano a prezzi abbordabili, mi raccomando.”

Pietro uscì dal divino ufficio già con un sacco di idee per la testa. Il giorno dopo tornò dal capo supremo per sottoporgli un progetto già ben articolato. “Dimmi dunque”, disse il buon Dio, “sono tutt’orecchi”.

“Nel frattempo”, esordì Pietro, “ho potuto interpellare diversi amici, fra cui un esperto di traffico e pianificazione territoriale, un esperto di turismo, un esperto di commercio e ho telefonato anche a Henry Ford che si è detto entusiasta e non vede l’ora di mettersi all’opera. A questo punto, ho dovuto pensare ad alcune cose essenziali. Anzitutto: se gli americani hanno una macchina devono poter girare senza problemi. Ecco che il mio amico esperto di traffico ha avuto un’intuizione direi ingegnosa. Dopo aver fatto le auto creiamo un fitto sistema di high way a flusso continuo su tutto il territorio. Il grande vantaggio di quest’idea del flusso continuo è che le strade non connettono i paesi o le città tra di loro, al contrario, sono le zone abitabili a disporsi lungo le strade. Forse hai in mente, un po’ come nel vecchio West, dove c’era una strada dritta diritta e le case ai due lati. Così anche nelle grandi metropoli non ci saranno grandi problemi di traffico. In altri termini: l’idea è che prima si crea la macchina, poi si costruiscono le high way, poi i posteggi così che la gente, quando arriva, prende possesso delle macchine e si dispone lungo le strade. Vedi, buon Dio, così noi abbiamo al centro della vita quotidiana la macchina e tutto il resto ruota attorno ad essa. Ho anche previsto ad esempio che gli americani non abbiano bisogno di un passaporto o di una carta d’identità vera e propria. La stragrande maggior parte di essi si accontenterà di una licenza di condurre, tutto a vantaggio di una minore burocrazia. E vedrai che la cosa funziona, perché gli americani ‘normali’ all’estero ci vanno al massimo quando sono in guerra con qualcuno, altrimenti proprio non gli interessa.”

Ma c’è ovviamente di più, disse Pietro.

“Per permettere ad ogni americano di stare il più possibile in macchina, abbiamo previsto, su suggerimento degli amici esperti di commercio e di turismo, alcune misure veramente ‘tremende’ (by the way: sarà l’aggettivo preferito da uno dei presidenti, un certo Trump che farà pure delle cavolate veramente tremende…). Gli hotel non verranno piazzati in posti particolarmente ameni, ma lungo le strade, e saranno dei motel, vale a dire dei caseggiati provvisti di un congruo numero di posteggi, disposti davanti alle camere, così da permettere una connessione diretta tra macchina e camera. L’ambiente sarà del tutto impersonale e le camere saranno dotate del comfort minimo, perché l’americano arriva all’imbrunire e se ne va di buon ora. Ma senti questa, veramente notevole. Per permettergli di poter passare il maggior tempo possibile in macchina abbiamo inventato i cosiddetti “drive thru” (dove thru sta per through) che sono l’ottimizzazione dei “fast food”: sulla parete esterna del “fast food” abbiamo previsto di far appendere il menu (anche se non sarebbe nemmeno necessario perché mangiano sempre le stesse due o tre cose, patatine, hamburger, chicken, insalata, caffè a litri e coca….); si accosta con la macchina alla prima finestra, si ordina e si paga, alla prossima finestra, dieci metri più avanti, si ritira e via… Il tutto può durare anche meno di 1-2 minuti. Questo sistema ci permette di far funzionare i ristoranti, pardon i fast food, come catene di montaggio e di tenere i salari al minimo, vale a dire tra gli otto e i dieci dollari l’ora che è poi quello che guadagnano la maggior parte degli americani. Ci permette anche di fare lavorare le schiere di latinos, se necessario in nero (anche se questo resti confidenziale, sai com’è…). Ma, la stessa idea l’abbiamo applicata anche alle banche. Ti rendi conto: con la macchina ti accosti ad uno sportello automatico e puoi fare tutte le tue operazioni, restando comodamente in macchina. Analoga è la soluzione per i negozi e i centri commerciali. Tutti disposti lungo le strade e provvisti di parcheggi immensi.”

A questo punto il buon Dio interrompe Pietro.

“Veramente impressionante, caro Pietro, ti faccio i miei complimenti. Ma, dimmi una cosa. Ora abbiamo le macchine, le strade, i motel, le banche e i centri commerciali e mi pare che tutto sia ben congeniato. Ma gli americani? Hai fatto solo qualche cenno indiretto e dovresti dirmi qualcosa in più, in particolare dove vuoi andare a prenderli.”

“Hai ragione”, disse Pietro, “tieni conto che ti ho descritto solo i lavori preparatori. Ora viene la fase conclusiva, forse anche la più impegnativa, ma ne avevamo già parlato. Di per se il terreno però è già preparato. Ti ricorderai di Cristoforo Colombo, Americo Vespucci e qualche altro che un po’ di tempo fa scoprirono le Americhe. Era gente in gamba, solo che hanno attirato, soprattutto in Sudamerica, un sacco di avventurieri al soldo dei re di Spagna e Portogallo che subodoravano immense ricchezze di cui comodamente appropriarsi e anche un sacco di missionari che cercavano sì di portare la tua buona novella, ma, nel contempo, fornivano anche la legittimazione per le efferatezze compiute nei confronti dei cosiddetti selvaggi. Tutto questo ha prodotto un po’ troppo ‘casino’ in Sudamerica. Abbiamo perciò pensato di andare a prendere gli americani piuttosto al nord dell’Europa. Ti ricordi che avevo accennato ai WASP. Ecco facciamo affidamento su di loro. È vero, c’è un po’ di tutto tra i WASP, puritani inglesi, irlandesi scozzesi così come protestanti tedeschi, mormoni, amish svizzeri, criminali in fuga, avventurieri, ma in definitiva devi convenire che sono, tranne qualche eccezione, dei buoni cristiani. E soprattutto sanno impegnarsi e fare affari, sono caparbi perché hanno sviluppato una buona etica del lavoro, hanno un buon senso pragmatico senza troppi fronzoli riflessivi come gli eredi di Platone e Aristotele in Europa e fra di loro c’è anche parecchia gente intelligente con inventiva. Non so se avevi dato un’occhiata al libro di Max Weber che ti avevo messo sulla scrivania qualche tempo fa, quello che fa il discorso sull’etica protestante… Queste qualità in ogni caso dovrebbero compensare la spregiudicatezza di molti di loro. Certo, fare l’America con gli americani non sarà mica una passeggiata e qualche pedaggio con lo sfruttamento degli schiavi e della classe operaia e con una qualche perdita sul fronte dei nativi bisognerà pure pagarlo, ma credo che a saldo dovrebbe uscirne una buona cosa.

Ecco questo è quanto, buon Dio! Che ne pensi? Possiamo procedere?”

Il buon Dio si disse molto contento delle proposte e ringraziò Pietro, chiedendogli di ripassare all’indomani. Avrebbe riflettuto e gli avrebbe dato una risposta definitiva. Voleva fare ancora qualche telefonata per verificare alcune cose e rassicurarsi. Rimasto solo, pose mano al suo vecchio apparecchio telefonico e fece un numero. Dopo pochi secondi all’altro capo qualcuno rispose…

– “Carnegie,…ah, buongiorno, quale onore! A cosa devo la telefonata, buon Dio? Sono a Sua completa disposizione, anche se avrei un sacco di cose da fare, sa il business con l’acciaio si fa sempre più arduo, il libero mercato è un disastro, non è quasi più possibile stabilire accordi e mantenere i prezzi ad un livello decente…”

-“Andrew, non tirarla per le lunghe, le tue litanie le conosco e penso anche che i cartelli abbiano fatto il loro tempo e vadano sostituiti con accordi di libero scambio, checché ne dica quel trombone di nuovo presidente, come si chiama già, Tromp, Trumb… Senti, so che sei busy, ma ho una proposta da farti. Ho una mezza idea di creare l’America e gli americani. Che ne diresti di scendere giù e mettere in piedi un business dell’acciaio. Promette bene, il ferro non manca in America. Ci sono le ferrovie da costruire, un sacco di ponti, grattacieli, ecc. e poi ho avuto un’idea geniale: creare l’automobile, anche quelle da costruire con il ferro. Pietro ne ha già parlato con Henry Ford che sembra entusiasta. Tu che ne dici?”

-“Beh, sai così su due piedi, mi prendi un po’ alla sprovvista. Tuttavia a naso direi che l’idea è buona. Si può fare. Ma ci sono alcune condizioni: dovresti lasciarmi mano libera. Devo poter tenere i costi di produzione il più basso possibile, altrimenti come faccio a reinvestire, e poi la vita al giorno d’oggi è cara, quando torno in Europa per le ferie ti spennano, soprattutto in Italia… Voglio essere chiaro: niente sindacati che rompano eccessivamente. Che ci siano va bene, ma per salvare la faccia e che si possano in qualche modo anche pagare… Ah, ancora una cosa, hai parlato con John Rockefeller per il petrolio e la benzina e con John P. Morgan per il sistema bancario? Se ci stanno bene, anche se so che con Rockefeller avrò qualche problema, è uno scavezzacollo e per fare soldi venderebbe la pelle di sua madre…Fa anche in modo che ci sia una buona base ideologica per giustificare la pressione sui lavoratori, direi tipo darvinismo sociale, nel senso del “survival of the fittest”; hai in mente quel filosofo inglese, come si chiama già…, credo Herbert Spencer…”

-“Eh, Andrew, un po’ di calma, so che sei una specie di vulcano, ma non pretendere troppo, se tiri eccessivamente la corda l’operazione salta! Chiaro!”

– “OK”.

-“Allora senti, ti do mano libera come farò anche con Rockefeller e gli altri. Per me potete fare quanti quattrini volete, ma poi dovrete riversarne una buona parte in beneficienza, sai tipo mecenatismo come c’era durante il Rinascimento in Europa.

– “OK, OK, non preoccuparti. Vedremo di creare dei fondi, poi io potrei contribuire alla diffusione delle biblioteche. Fa sempre scic… e mi permetterà di passare alla storia come benefattore piuttosto che come sanguisuga…”

– “Bene allora, verifico con Rockefeller e con Morgan e poi ti richiamo.”

Il buon Dio sa che l’operazione è quasi in porto. Gli resta solo da convincere J. P. Morgan e J. Rockefeller. Questi, sentite le condizioni concesse a Carnegie e messi un po’ sotto pressione, dopo qualche riluttanza e dopo aver posto a loro volta qualche condizione, almeno per salvare la faccia, soprattutto al riguardo dei politici, “soliti a ficcare eccessivamente il naso nelle cose economiche”, si dicono d’accordo. Rockefeller pretende in aggiunta di avere mano libera anche nei confronti di Carnegie e, se del caso, di potergli comprare tutto il business, “perché”, dice, “quello lo conosco, è un osso duro…”

Così ebbero inizio la storia e il mito dell’America moderna e degli americani. Nel 1908 vide la luce la mitica Ford T, prodotta in 15 milioni di esemplari con l’acciaio di Carnegie, messa in moto con la benzina di Rockefeller e finanziata con il sistema bancario di Morgan. Altri ci avrebbero messo del loro: Firestone le gomme, Edison le lampadine, ecc. La catena di montaggio e gli stipendi da fame permisero di venderla ad un prezzo abbordabile. Era stato creato il perno attorno a cui sarebbe ruotata la società americana. La grande idea si era ormai fatta concreta.

Soddisfatto, il buon Dio osservava la propria creatura dal finestrone del suo divino ufficio… “Tutto sommato”, si disse, “l’idea non è poi stata così male. Speriamo solo che quel trombone di nuovo presidente non metta tutto a soqquadro.”

 

XV Amerika II: Die Ureinwohner (2.11.2016)

I

Es wird oft ­– und nicht nur unterschwellig – ausgeblendet, dass die Geschichte Amerikas nicht etwa 1492 mit Christophorus Columbus begann, sondern, je nach Schätzung, 13000 bis 40000 zurückreicht. Die Überschreitung der Beringstrasse durch asiatische Stämme ist der Ursprung der Besiedlung der zwei amerikanischen Subkontinente. Insofern kommt den Uhreinwohnern beider Subkontinente eine unfraglich entscheidende Rolle zu.

II

Die ethnische Zusammensetzung der ca. 320000 Mio. Einwohnern der USA sieht gemäss Zensusangaben 2013 wie folgt aus:

  • 77% Weisse,

  • 16% Hispanics oder Lateinamerikaner,

  • 13% Schwarze oder Afroamerikaner,

  • 5.6 % Asiaten,

  • 1.0 % Indianer Nordamerikas und Ureinwohner Alaskas.

Diese Zahlen sind v.a. bezüglich der Ureinwohner beeindruckend. Es leben heute also etwa 3.0 Mio. nordamerikanische Indianer (Native Americans), die auf 310 Reservaten verteilt sind und zu 562 anerkannten Stämmen gehören. Der grösste Teil lebt in den Staaten des Südwesten, New Mexico 10.1% der Staatsbevölkerung, Arizona, 4.6%, Kalifornien 1.7…

Während der Expansion der Weissen im 18. und 19. Jh. wurden die Indianer fast ausgerottet und ihre Kultur beinahe vernichtet, schätzungsweise kostete die europäische Eroberung Nordamerikas und das Voranschreiten der sogenannten fortschrittlichen Zivilisation etwa 400000 Indianern das Leben, teilweise wurden sie Opfer der eingeschleusten Seuchen (nach Schätzungen bis 80% der Urbevölkerung), viele starben in den unzähligen Schlachten. Die Überlebenden wurden Ende des 19. Jh. im Auftrag der Regierung in unfruchtbare Gegenden und Reservationen systematisch deportiert, und dies meistens unter Missachtung getroffener Abmachungen und unterschriebener Verträge. 1924 wurde der amerikanischen Urbevölkerung das Recht der US-Staatsbürgerschaft gegeben, nachdem viele Indianer bereits im Ersten Weltkrieg für die Armee gekämpft hatten. Das Warten auf eine Anerkennung ihrer Rechte dauerte aber bis 1975. Mit dem Indian-Self-Determination Act wurden den Stammesregierungen in den Reservaten weitgehende Befugnisse zugestanden: Sie haben eigene Gesetze und können über die eigenen Ressourcen verfügen.

„Nach vielen kriegerischen Auseinandersetzungen, den Indian Wars, zwischen den Ureinwohnern und Soldaten und nachdem offensichtlich war, dass die Lebensgrundlage für viele indianische Völker in den neuen Reservaten nicht ausreichend war, ging die Regierung ab 1887 mit dem Dawes Act einen neuen Weg und sprach einzelnen Stammesmitgliedern eigene kleine Parzellen zu, statt größere Flächen an ganze Völker zu verteilen. Diese Politik wurde bis zum Jahr 1934 verfolgt.

Seitdem änderte sich die gesamte Politik der USA gegenüber seinen Ureinwohnern nachhaltig. Wo zuvor versucht worden war, die Indianer zum Christentum zu missionieren und sie an die Kultur der weißen Siedler anzugleichen, wurde nun mehr Wert auf Selbstbestimmung und Pflege der traditionellen Kultur gelegt. Zu dieser Zeit begann auch die Unterstützung der Völker zum Beispiel im Hinblick auf Schulerziehung und medizinische Versorgung. Trotz dieser Veränderungen jedoch blieben die Bedingungen in vielen Reservaten trostlos und aussichtslos und sind es bis heute. Arbeitslosigkeit, Armut und Suchtkrankheiten sind vielerorts weit verbreitet; die Ursachen hierfür sind vielseitig. Zu einem nicht unbedeutenden Teil aber dürfte diese Entwicklung auf die Umsiedlung der Indianer in unwirtschaftliche Gegenden zurückgehen, die weder zum eigenen Unterhalt ausreichend bebaut werden konnten noch außerhalb der Reservatsgrenzen genügend Möglichkeiten bieten konnten.

Indianische Casinos sind heute für einige Stämme eine sehr bedeutende Einnahmequelle, die mancherorts sogar zu einem gewissen Wohlstand geführt hat. Viele Völker jedoch lehnen Glücksspiel auf dem Boden ihrer Reservate ab, weil sie um ihre Traditionen und Kultur fürchten. Weitere Wirtschaftsfaktoren sind der Tourismus und das indianische Kunsthandwerk, diese Quellen sind jedoch häufig nicht ausreichend, um den negativen gesellschaftlichen Entwicklungen in den Reservaten zu begegnen.“

(http://www.americanet.de/html/indianer__reservate.html)

Die Lebensverhältnissen der Indianer bleiben generell äusserst bedürftig: die Arbeitslosigkeit grenzt an die 50% und die Lebenserwartungen liegen in den Reservaten bei 47 Jahren (! – 78% im amerikanischen Durchschnitt).

Der Widerstand der Indianer war zäh, konnte aber gegenüber der zahlenmässigen und technischen Übermacht der Einwanderer unmöglich erfolgreich sein. So mussten die unzähligen Indianerstämme scharf an der Ausrottung vorbeigehen, so wie es schlussendlich den Mohikanern geschah, bis man sie in unwürdiger Weise, völlig rechtlos in Reservate deportierte.

Der letzte, der den Kampf aufgab war Geronimo. Er ergab sich mit seiner ‚Truppe’ von 16 Kriegern, 12 Frauen und 6 Kindern am 4. September 1886, nachdem ein Heer von 5000 amerikanischen und 3000 mexikanischen Soldaten es nicht fertig gebracht hatte, ihn einzufangen. 1876 hatte sich Geronimo mit 134 Apache in die Berge New Mexico zurückgezogen und überfielen von dort aus Dörfer und Farms. Dann endete auch sein Weg: „Nie wieder wollen wir einander Unrecht tun“ schwören er und General mit der Absprache von General A. Miles nach der Waffenniederlegung. Aber wie so oft kam es auch diesmal anders. Die Abmachung wurde gebrochen, Geronimo und seine Gefolgsleute in Ketten nach Florida abgeführt und dort eingesperrt. Vier Jahre später sollte es am Wounded Knee nochmals zu einem Gemetzel von 150 Sioux kommen. Erst 1917 können die letzten 271 Apache nach New Mexico zurückkehren.

III

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Wann die Navajo und die Apachen aus Kanada kommend in den Südwesten zogen, ist ungeklärt – wahrscheinlich war es zwischen 900 und 1000 n. Chr. Dort im Norden leben die meisten anderen athabaskisch sprechenden Indianerstämme noch heute.

(Aus Wiki) “Mit fast 300.000 Stammesangehörigen sind die Navajo heute der bevölkerungsreichste Stamm Nordamerikas. Die Nation wird seit 1923 von einem Stammesrat, gebildet aus den Repräsentanten der 88 Siedlungen, und einem direkt gewählten Vorsitzenden (engl. Chairman) verwaltet. Sie hat Steuerhoheit wie ein amerikanischer Bundesstaat, eine eigene Polizei und eigene Gerichtsbarkeit. Das Durchschnittsalter der Navajo beträgt 18 Jahre, und die Geburtenrate liegt bei 2,7 %. Der Boden des Reservats ist reich an Rohstoffen wie Erdöl, Erdgas, Kohle, Holz und Uran, die zwar Geld einbringen aber auch Probleme aufwerfen, wie die zunehmende Zerstörung der Umwelt, die Gefährdung der Gesundheit und von der US-Regierung angeordnete Zwangsumsiedlungen. Trotz aller Rohstoffe gibt es viel zu wenig verarbeitende Betriebe und keine eigene Dienstleistungswirtschaft. Die Arbeitslosenrate ist wie in den anderen Reservaten hoch, sie liegt bei 40 Prozent, und die Armut ist bedrückend – obwohl die Navajo über das höchste Einkommen aller Indianerstämme in den USA verfügen. Das Diné College (Diné-Universität) sowie das Center for Diné Teacher Education befinden sich heute in Tsaile , AZ, in der Nähe des Canyon de Chelly. Seit der Jahrtausendwende gibt es einen zunehmend Bewahrungsversuche der traditionellen Kultur, die sich in Sprachprogrammen, aber auch zunehmendem Interesse an Medizinmännern äußern. Junge Navajo sind inzwischen die Kinder der letzten Generation, die noch in die Boardings Schools mit ihrem Umerziehungsprogramm gingen.[6] Im zweiten Jahrzehnt des 21. Jahrhunderts wurde das Aussterben der Navajo-Sprache zunehmend befürchtet. Während zum Ende des Zweiten Weltkrieges noch fast jeder Bewohner des Navajo-Reservates Navajo als Muttersprache gesprochen hatte, beherrschten 70 Jahre später nur noch wenige junge Navajo die Sprache ihrer Großeltern. 1998 sprachen noch 30 Prozent der Navajo bei Schulbeginn Navajo als Muttersprache, während es 30 Jahre zuvor noch rund 90 Prozent waren. Im Reservat beginnt der Navajo-Sprachunterricht bereits in jungem Alter. An der im Jahr 2001 eröffneten Indian Wells Elementary School lernen Drittklässler Lesen, Schreiben und Sprechen auf Navajo.

Der lange Marsch

Nur wenige Navajo entkamen unter der Führung des Häuptlings Manuelito . Die Lebensgrundlage war zerstört, und im Februar 1864 sammelten sich über 8000 Navajo

bei Fort Defiance, das jetzt Fort Canby hieß. Sie wurden auf den Langen Marsch (engl. Long Walk ) nach Bosque Redondo geschickt. Das Vorhaben endete in einer Katastrophe und kostete insgesamt etwa ein Viertel der Indianer das Leben. General William T. Sherman führte eine Untersuchungsdelegation und zeigte sich erschüttert über die Zustände. Am 1. Juni 1868 wurde ein Vertrag unterzeichnet, der den Navajo einen Teil der alten Heimat als Reservat zuteilte und die Rückkehr erlaubte.

Der Navajo-Code

Im Zweiten Weltkrieg arbeiteten relativ viele Navajo als Funker für das US-Militär im Pazifikkrieg gegen Japan . Als es den Japanern gelungen war, amerikanische Funkcodes

zu entschlüsseln, wurde der Navajo-Code entwickelt, der im Wesentlichen aus der Sprache der Navajo bestand. Diese wurde nur um einige Codewörter, die militärtechnische Dinge bezeichneten und für die es keine Navajo-Wörter gab, ergänzt. Als Windtalkers bezeichnete Navajo wurden in allen Standorten des Pazifikkriegs eingesetzt und tauschten Nachrichten in ihrer Sprache aus. Dieser Funkverkehr konnte von den Japanern trotz aller Bemühungen bis zum Ende des Krieges nicht übersetzt werden – ein Vorteil der außergewöhnlich komplexen Sprache der Navajo. Die Windtalker erhielten vergleichsweise hohe Anerkennungen der US-Armee, viele Details dieser Operation wurden jedoch wegen der Geheimhaltung erst Jahrzehnte später bekannt. Zum Andenken

wurde der 14. August zum Nationalen Navajo- Codesprecher-Tag erklärt. Während des Kalten Krieges richtete die Sowjetunion an der Moskauer Lomonossow-Universität auch einen Sprachkurs in Navajo ein.”

 

XIV Emigrazione ticinese (21.9.2016)

Le varie forme di emigrazione, tanto quella ‘qualificata’ e stagionale del periodo dei baliaggi quanto quella povera dell’Ottocento e quella più recente del ‘brain drain’, rappresentano una delle indispensabili chiavi di lettura del Ticino e della sua storia.

Se pensiamo all’emigrazione ottocentesca, quella animata dalla fame, dalla disperazione e dalla speranza, bastano alcune cifre per capirne la portata sugli eventi del Cantone: a metà Ottocento la popolazione ticinese era di ca. 120’000 abitanti. Nel corso dei decenni a seguire, fino al primo dopoguerra, furono 30’000 gli emigranti che cercarono fortuna oltre Oceano, in California, in Argentina o in Australia.

Le ragioni sono note. Il Ticino ottocentesco faticava terribilmente ad uscire dalla secolare indigenza, dovuta, oltre alle difficili condizioni geo-economiche, al dominio dei Balivi che tutto fecero fuorché favorire lo sviluppo dei possedimenti al sud delle Alpi. Ma anche eventi politici avversi, come l’espulsione dei Ticinesi dal Lombardo-Veneto nel 1854, così come diverse crisi alimentari e diverse alluvioni, svuotarono le valli e il Mendrisiotto delle forze più intraprendenti.

Uno dei capitoli di questa storia è stato scritto in California dove, attratti già alla fine degli anni ’40 dalla scoperta dell’oro, finirono la maggior parte dei Ticinesi. Prima dell’avvento della Trans Pacific Railway, il percorso da NewYork alla costa ovest era la continuazione di un viaggio irto di difficoltà e privazioni di ogni genere. Tre erano le possibilità: salire sui bastimenti che aggiravano capo Horn sulla via di Magellano e stare in mare per ulteriori per 5-6 mesi, prendere la via di Panama o seguire le orme di Clark e Lewis per attraversare il Middle West e le Rocky Mountains. Con la ferrovia, costruita dagli irlandesi e dai cinesi, il viaggio si sarebbe poi accorciato di molto diventando decisamente meno insidioso.

Fra gli storici, dobbiamo essere grati a Giorgio Cheda per aver ricostruito, con un immenso e certosino lavoro, le vicende dell’emigrazione d’oltre mare. Una pregevole sintesi la si può trovare nel testo introduttivo alle testimonianze di Carlo Pinana in ‘California amara’ (Dadò, Locarno). Anche se qua e là l’autore si fa ‘prendere la mano’ sia sul piano dello stile sia nelle digressioni e nei giudizi, il testo offre uno spaccato di storia che permette di contestualizzare non solo l’insediamento dei Ticinesi nelle terre di California ma anche di percepire i loro vissuti.

A dire il vero prima dei Ticinesi vi furono numerosi svizzero tedeschi e francesi a seguire le via dell’emigrazione americana. Fra questi, già nel Settecento, non pochi erano ispirati da motivi religiosi, così i Mennoniti e gli Amish che ancora oggi costituiscono delle comunità importanti e fanno parte del variopinto pianeta religioso degli USA (cfr. il capitolo sulla storia americana). Sparse un po’ ovunque sono rimaste le tracce degli emigranti svizzeri, così ad esempio a New Bern, fondata nel 1710 nella Carolina del Nord o New Glarus, fondata nel 1830 nel Wisconsin.

Anche quelle dei Ticinesi in California dove si sparsero un po’ ovunque, ma ebbero un baricentro subito a nord di San Francisco, in particolare a Petaluma e dintorni. In verità, i Ticinesi che fecero fortuna con gold rush furono ben pochi, la stragrande maggior parte si dedicò ai modesti mestieri già praticata in Ticino: mungitori molti, agricoltori, casari, tagliaboschi, … qualcuno prese però subito l’iniziativa e ebbe mezzi e capacità di acquisire terreni e avviare aziende anche di dimensioni ragguardevoli. Sono state queste a fare per così dire da calamita per numerosi giovani che seguivrono il richiamo della California.

È noto che la maggior parte degli storici dà un giudizio prevalentemente negativo degli effetti dell’emigrazione sul Ticino. Cheda tenta di essere più positivo, alludendo ai risparmi che comunque, per quanto modesti, affluivano nei paesi d’origine. A parte il fatto che anche allo stesso Cheda non sfugge che questi risparmi affluivano nelle casseforti delle banche locali per essere inseriti poi nel giro delle speculazioni piuttosto che investiti nelle attività locali. Noto è anche come la crisi bancaria del 1914 annientò quasi il totale dei capitali a risparmio derivanti dall’emigrazione. Ma anche se quei capitali fossero rimasti, è difficile trovare ricadute positive sulla realtà cantonale. Chi aveva successo non tornava, chi tornava lo faceva senza ‘arte né parte’. Salvo qualche eccezione fra cui coloro che, ormai raggiunta una certa età, investirono nella costruzione dei palazzotti un po’ in tutte le valli o in qualche ponte – come a Mergoscia… In verità, il Cantone l’emigrazione letteralmente dissanguò il Cantone, creò sofferenze immani a chi restava – si vedano Martini e Bianconi ­–­ e contribuì ad impedire lo sviluppo del lavoro, dell’artigianato come dell’industria. Per chi tornava, l’arte di arrangiarsi e accontentarsi, era per così dire l’unico capitale acquisito.

Tra l’altro, ma queste sono le stranezze dei processi migratori, nei decenni tra il 1870 e 1890, all’epoca della costruzione e dell’apertura della Galleria del Gottardo emigrarono ben oltre 10000 Ticinesi, mentre in Leventina si dava lavoro alla manodopera italiana… Anche i capitali investiti in Ticino durante la promettente Belle Epoque non arrivarono dagli emigranti, ma dall’Italia o dalla Svizzera tedesca. Poi come si sa, la bancarotta delle banche e la Grande Guerra, gettarono il Cantone nella ‘Crisi ticinese’, durata più o meno fino periodo della ricostruzione postbellica.

 

XIII USA I (15.9.2016)

Probabilmente un libro come “The End of History and the last Man” (1992) non avrebbe potuto essere scritto se non da un americano e questo benché il suo autore, Francis Fukujama, si dimostri ben addentro alla cultura e alla storia europea e mondiale. Solo chi dispone di un’elevata considerazione di sé e ritiene la propria cultura superiore alle altre può arrivare anche solo ad ipotizzare che il modello di società e di democrazia in cui vive sia in un qualche modo il culmine dell’evoluzione della civiltà umana. Questa è perlomeno l’idea suggerita dal libro, anche se, occorre ammettere, Fukujama argomenta in modo più differenziato. E dietro quest’idea non appaiono semplicemente le categorie della cultura occidentale, ma soprattutto le basi del sistema americano, della sua “way of life” e di ciò che rappresenta l’’Uncle Sam’. Ma quali sono e dove traggono origine gli aspetti salienti di questo modo di vivere che ha fatto degli USA la maggiore potenza economico-politica mondiale e, a partire dall’industrializzazione e in particolare dal secondo dopoguerra, ha cominciato ad invadere progressivamente il mondo, non solo con la Coca Cola e i MacDonald ma anche con l’esercito e l’obiettivo missionario di esportare la democrazia yankee?

Si può tentare un avvicinamento a questa domanda con tre parole chiave, in corrispondenza con altrettanti schemi di lettura: avventura, business, religione. Come dire che l’identità americana sembra attingere ad uno spirito profondamente radicato nell’intreccio derivante dal vissuto religioso, dalle avventurose esperienze di scoperta e dall’indole commerciale. Resta tuttavia la necessità per il viaggiatore e osservatore esterno, a maggior ragione se proveniente dalla ‘vecchia’ Europa, di premunirsi contro i pregiudizi antiamericani, trabocchetti che possono indurre a distorsioni ed errori di giudizio.

Quando, per conto dei sovrani spagnoli, Cristoforo Colombo, approdò nei Caraibi, gettando le basi per quella che sarebbe stata la colonizzazione europea del continente, ritenendo di aver ‘scoperto’ il Nuovo Mondo non poteva immaginare che prima di lui già i Vichinghi avevano raggiunto le coste della Terranova e ancora meno poteva immaginare che gli abitanti incontrati discendevano da popolazioni nomadi asiatiche, riuscite a passare lo stretto di Bering ca.14000 anni prima. Il mondo all’epoca aveva un baricentro: l’Europa. In questo senso si può capire che si parlasse di ‘scoperta’ delle Americhe, anche se oggi una relativizzazione della visione eurocentrica dell’universo sembrerebbe più che necessaria. Ad ogni buon conto la cultura americana, quella del Nord come quella del Sud, è cresciuta su ‘terreno’ europeo e ciò si riflette nell’ambiguo rapporto, di nostalgica ammirazione e di profonda diffidenza, che caratterizza da sempre gli americane nei confronti della vecchia genitrice. Poco dopo Colombo è la volta di Amerigo Vespucci che esplora il sud al servizio del Portogallo, mentre le coste del nord sono percorse da Giovanni Caboto su incarico della corte d’Inghilterra. Così, gradualmente, a cavallo tra il Quattro- e il Cinquecento, le corti europee, grazie alle mirabolanti scoperte e ai progressi della navigazione, allungano i loro tentacoli sulle due Americhe, soprattutto su quella del Sud. Devastano le culture che incontrano, quella azteca come quella inca, ne saccheggiano le ricchezze, imponendo modi di vivere e religione e non da ultimo provocando malattie dagli effetti spaventosi. La Spagna, il Portogallo, la Francia, l’Inghilterra, ma anche il Belgio e l’Olanda, tutti cercano di non perdere l’occasione per appropriarsi di parte del Nuovo Mondo ed inserirsi nei promettenti commerci. Ben presto, nel 1619, arriveranno in America anche i primi schiavi, ‘importati’ dall’Africa da commercianti olandesi.

Le prime colonie nel Nord-America vedono la luce all’inizio del Seicento per opera dei francesi che occuperanno gradualmente il territorio fino al Golfo del Messico. Intanto in Europa si infiammano i conflitti a sfondo religioso e per la costruzione dei nuovi stati. Una delle conseguenze di queste tensioni è la fuga verso il Mondo Nuovo. Nei tre secoli a venire, fino a Novecento inoltrato, centinaia di migliaia di Europei prenderanno la via del mare. Fra di loro c’è di tutto: avventurieri, speculatori, coloni, commercianti alla ricerca di fortuna, reclusi che riescono a fuggire, ma in particolare gruppi religiosi, non più tollerati, specie in Inghilterra. Animati da una fede e da certezze granitiche cercano salvezza e la possibilità di creare un uomo e una società nuova in un ambiente incontaminato. Fra di loro spiccano i puritani e i quaccheri. Sono i puritani a fondare la prima colonia nel 1620 a Plymouth che diventerà poi Boston. Gli Olandesi fondano New Amsterdam, l’odierna New York. Più tardi William Penn, un quacchero, gettarà le basi dell’odierna Pennsylvania. Nel Settecento sarà il movimento degli Evangelicali a diffondersi, tra l’altro in contrapposizione ai puritani. Così le tensioni religiose da cui fuggono riappaiono anche nel NuovoMondo, ma con esiti diversi perché prevale in un qualche modo la tolleranza reciproca e le chiese si moltiplicano, assumendo il carattere di club, ogni proteso a fare proseliti e alla ricerca di risorse per finanziare attività sociali ed educative. Oggi negli Stati Uniti ve ne sono ca. 250 e in un paese di pochi abitanti se ne possono trovare diverse.

I puritani si ispirano a Calvino, aborriscono l’ozio e ritengono lavoro, proprietà privata e ricchezza una grazia di Dio. Il loro ideale era quello di portare finalmente a compimento quella Riforma che in Europa si era persa, frantumandosi in varie chiese. Il nomignolo yankee verrà loro affibbiato per evidenziarne le attitudini, la capacità di giudizio, il proverbiale risparmio, lo zelo illimitato. In ogni modo si ritengono una comunità di eletti, i saints, caratteristica che ben presto verrà attribuita anche alla Grande Nazione, la cui verve missionaria nel voler ‘esportare’ (il termine si addice anche per la sua connotazione economica…) libertà e democrazia in tutto il mondo non verrà mai meno e servirà anche per invadere l’Irak trecento anni più tardi. Ciò sarà anche possibile perché ben presto si instaura un’equazione fatale: proprietà privata = libertà, e ciò che nell’ottica religiosa equivale ad una grazia di Dio, dal punto di vista della politica liberale è segno di competenza e capacità. Così le due visioni convergono e si rafforzano reciprocamente. Non ci si può pertanto meravigliare più di quel tanto se oggi, alla faccia della separazione tra Stato e Chiesa, politica e religione vanno a braccetto e legano gli interessi economici.

Arriva poi l’ora degli esploratori e degli avventurieri. Preparano la strada ai commercianti, ai coloni e agli speculatori. Dapprima sono i trapper, i cacciatori di pelli con le loro trappole nelle regioni dei grandi laghi ­– cfr. la pagina cultura XII sul Canada), poi, all’inizio dell’Ottocento, quando la rivoluzione contro gli inglesi sarà cosa fatta e i primi 13 stati avranno costituito l’Unione, si aprirà il varco verso Ovest. Thomas Jefferson, il presidente illuminato ispirato da Rousseau e Voltaire, nel 1804 manda due fidati esploratori a cercare la via verso il Pacifico. Il centro del continente, con le sue sconfinate praterie dal Missouri alle Rocky Mountains era appena passato dalle mani francesi a quelle americane per la somma di 15 milioni di dollari (1803). L’Unione occupava così la costa est e il centro, ma la volontà di estendere la frontiera e arrivare al Pacifico era irrefrenabile. A Meriwether Lewis e William Clark Jefferson raccomanda atteggiamenti pacifici nei confronti dei nativi. La sua è certamente una prospettiva di espansione territoriale ed economica, ma i suoi ideali mantengono la matrice rivoluzionaria per una società pacifica e migliore. Partiti da St. Louis, gli esploratori risalgono il Missouri, attraversano le Rocky Mountains e scendono sul Columbia River, raggiungendone la foce dopo quasi due anni e più di 13 000 km di strada. L’impresa ha notevoli conseguenze. La Nuova Unione può ora legittimare la sua pretesa di controllo sul continente nordamericano dall’Atlantico al Pacifico e l’Ovest e la colonizzazione che già aveva preso avvio nelle distese del centro ora vede aprirsi la nuova frontiera a Ovest.

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Il percorso di Clark e Lewis

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Migliaia i coloni con le loro carovane attraverseranno le sconfinate praterie, risaliranno le Rocky seguendo l’”Oregon Track” aperto da Lewis e Clark per ridiscendere sulla costa creando fatti compiuti con i loro insediamenti. A dire il vero i territori sul Pacifico sono ancora sotto il dominio della Corona inglese e del Messico e passerà qualche decennio fino a che verranno formalmente ceduti dagli inglesi e dai messicani nel 1846 e nel 1849. A metà Ottocento il territorio degli Sati Uniti è praticamente unificato, manca solo l’Alaska che verrà acquistata dalla Russia nel 1867 e diventerà il 59imo Stato dell’Unione nel 1959.

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È sorprendente notare come gli Stati Uniti si siano configurati in buona parte attraverso l’acquisto di immensi territori: vale per buona parte del centro comprato ai Francesi (1803), per la Florida venduta dagli Spagnoli (1819), per una parte del Messico (1853) e per l’Alaska. La costruzione dello Stato è avvenuta grazie agli ingenti mezzi finanziari e ad uno spirito che da sempre ha conciliato senza troppi scrupoli politica e commercio.

Dati questi presupposti, la seconda metà nell’Ottocento vede la colonizzazione subire un’impressionante accelerazione. A fare da propulsore vi sono molteplici eventi, fra cui la scoperta dell’oro nel 1848 in California, poi a fine secolo in Alaska, la costruzione delle ferrovie intercontinentali e il cosiddetto “Homestead Act” del 1862, una legge che conferiva ai coloni l’automatico e gratuito diritto di possesso sui territori occupati. San Francisco nel 1850 conta 5000 abitanti, vent’anni dopo saranno 150000. L’immigrazione si fa intensa da tutto il mondo. Anche dal Ticino, martoriato dalla povertà ed eventi politici e climatici avversi, saranno migliaia e dirigersi soprattutto verso la California. Ma la manodopera arriva anche dalla Cina con migliaia di operai impiegati nella costruzione delle ferrovie.

Sulla sua strada, la colonizzazione costruisce ma al tempo stesso distrugge. Nelle praterie del centro, mandrie con milioni di bufali scompaiono in pochi decenni, lasciando il posto alle vacche dei farmer e dei cowboy. Negli stati del sud le risorse produttive sono soprattutto gli schiavi arrivati dall’Africa che vengono sfruttati peggio dei servi della gleba e alla faccia dei principi della Costituzione del 1776 che si ispira al diritto naturale e al contratto sociale. In effetti, la convivenza negli immensi territori si regge principalmente sulla legge della forza e della violenza: legittima difesa e ‘occhio per occhio, dente per dente’ sono le chiavi del comportamento alla nuova frontiera. Il concetto di libertà viene portato all’estremo, anche perché gli emendamenti alla costituzione apportati nel 1791 con la cosiddetta ‘Bill of Rights’ – e invocati ancora oggi – ne creano le premesse, dando netta prevalenza i diritti individuali, in particolare alla proprietà privata.

La legge del “Far West” coincide principalmente con la mitica pistola, ‘Colt’ o ‘Smith & Wesson’, o con la carabina che servono per la difesa personale ad oltranza e non solo. Sceriffi e marshall che dovrebbero far rispettare le leggi sovente non sono meglio dei “fuori legge”, anzi… una parte non indifferente degli omicidi vengono commessi dagli stessi uomini di legge, occultamente coinvolti nelle gangs. Ma anche i giudici, laddove ci siano, arrivano spesso a linciaggio avvenuto, soprattutto quando le vittime sono neri o indiani. Queste sono le radici lontane della realtà odierna!

In queste condizioni, più vicine al ‘bellum omium contra omnes’ hobbesiano che non allo stato di diritto kantiano, avventura ed economia si coniugano, con la fede religiosa a fare da collante, e non vi sono freni efficaci alla violenza e ai soprusi. A farne le spese sono gli indiani, i neri, e in generale i deboli che non riescono ad imporsi e ad emergere. L’ideale di Jefferson di poter realizzare uno Stato pacifico che integrasse tutti, anche le numerose tribù di indiani, si infrange, paradossalmente sugli effetti perversi di una libertà mal interpretata a cui vengono meno i fondamentali limiti kantiani.

Buona parte dell’identità americana si forma su queste basi che vediamo riemergere ancora oggi, soprattutto negli stati rurali del centro e del sud, mentre le coste sia sull’Atlantico che sul Pacifico sembrano prevalentemente aver superato questo retaggio storico-culturale.

Se torniamo a metà Ottocento, vediamo come in generale le lotte d’interesse, ma anche i conflitti fra gli Stati dell’Unione crescono e finiscono per coagularsi attorno alla questione razziale sfociando nella guerra civile che oppone gli Stati del sud a quelli del nord. Difficile dire se si tratti di una guerra fratricida. Scarsa è la fratellanza tra le popolazioni che della lotta individuale e quasi senza quartiere hanno fatto una scelta. La rivolta contro gli inglesi aveva fatto dimenticare le divergenze e portato alla dichiarazione d’indipendenza nel 1776 e alla Costituzione comune dei primi 13 Stati nel 1987. Ma le tensioni non si sopiscono e si manifestano in una continua tensione fra centralisti, prevalentemente gli stati del nord, e federalisti, prevalentemente quelli del sud dove è diffusa la schiavitù. Nel 1860 la vittoria di Abramo Lincoln, repubblicano, provoca la secessione di 11 Stati del sud. La guerra civile durerà fino al 1865 e si concluderà con la capitolazione dei sudisti. Ma l’odio razziale continuerà e già nel 1866 verrà fondato il “Ku Klux Klan”.

La resistenza degli indiani verrà piegata definitivamente nel 1890 con un bagno di sangue a Wounded Knee nel Dakota. Agli orgogliosi abitanti originari di questo immenso continente non resteranno che le riserve e verranno privati fino in epoca recente di ogni diritto,

Dopo la guerra civile il corso degli Stati Uniti è irrevocabilmente prefigurato. Le illimitate risorse di cui dispone il continente, ma anche il fatto di occupare un territorio che va dall’Atlantico al Pacifico e di non avere veri e propri nemici né a nord né a sud, segnano il destino di quella che ben presto sarà la potenza mondiale dominante.

Spirito di avventura, senso del commercio e degli affari così come l’attitudine missionaria di matrice religiosa sono i capisaldi dell’identità di un popolo che, cresciuta in poco più di duecento anni, si vedrà confermata e rinsaldata nel Novecento grazie al ruolo avuto nelle due guerre mondiali e agli impressionanti successi economici.

 

XII Canada (17.8.2016)

Die Verbundenheit de Geschichte Kanadas mit jener von Grossbritannien, Frankreich und von den Vereinigten Staaten ist auffällig. Der Weg dieser Nationen war ein gemeinsamer und natürlich noch heute besteht untereinander eine besondere Beziehung. Man bedenke beispielsweise, dass die endgültige formale Unabhängigkeit von Grossbritannien erst 1982 erzielt wurde, dass ein erstes Unabhängigkeitsreferendum der französischsprachigen Provinz Québec 1980 mit 59.6% und ein zweites 1995 knapp mit nur 51.6% abgelehnt wurde und dass Kanada Landesgrenze nur zum südlichen Nachbarn entlang dem 49. Breitengrad hat.

Der Name ‚Kanada’ stammt von der Sprache der Irokesen-Indianer (‚kanata’) und bedeutet ‚Dorf’, ‚Siedlung’. Damit ist schon angedeutet, dass die riesigen Ländereine des heutigen Kanada – das zweitgrösste Land weltweit nach Russland – ursprünglich von den Indianern und von den Inuit besiedelt waren. Die ersten Siedler waren Wikinger um das Jahr 1000. Die Kolonisierung der Europäer, d.h. der Franzosen und Engländer, begann im 16. Jahrhundert an der Ostküste. Die Spannungen zwischen den Kolonisatoren waren anhaltend und mündeten immer wieder in kriegerische Auseinandersetzungen um die eroberten Gebiete, mit der jeweiligen Einbeziehung der Indianerstämme. 1763 musste Frankreich nach einem siebenjährigen Krieg klein beigeben und die Kolonie Neufrankreich an die Engländer abgeben. 1791 vollzog sich eine innere Trennung zwischen dem französischsprachigen Nieder- und dem englischsprachigen Oberkanda.

Gleichzeitig, also in der ersten Hälfte des 18. Jahrhunderts, waren auch die Spannungen mit den amerikanische Kolonien ausgebrochen und mit dem Frieden von 1763 fielen auch die Gebiete südlich der grossen Seen an die Vereinigten Staaten. Die Auseinandersetzungen nahmen aber kein Ende und mündeten in den britisch-amerikanischen Krieg von 1812 bis 1814. Dieser territorial ergebnislose Krieg stärkte das Selbstbewusstsein der Kanadier und brachte die französisch- und englischsprachige Bevölkerung näher.

1867 wurde unter der Obhut der britischen Krone die kanadische Konföderation gegründet. 1932 erhielt Kanada dann erstmals eine eigene Verfassung und eine gewisse Unabhängigkeit vom Vereinigten Königreich.

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Kanadas 33.5 Millionen Einwohner sind unter den wohlhabendsten der Welt. Das Land verfügt über ausserordentliche natürliche Ressourcen und der Wohlstand ist dank einer ausgebauten sozialen Marktwirtschaft ausgeglichen verteilt. Die moderne ökonomische Entwicklung, heute durch zahlreiche Freihandelsabkommen u.a. mit den USA angetrieben, nahm ihren Anlauf bereits mit der Besiedlung des Westens und mit der Schaffung schon im 17. Jh. der zwei grossen Handelsgesellschaften Hudson’s Bay Company (HBC) und North West Company (NWC). NWC wurde 1821 zwangsliquidiert, womit die HBC über ein totales Monopol über das gesamte Nordwesten verfügte. Unter der Obhut der eigens dazu geschaffenen North-West Mounted Police besiedelten die Einwanderer das Land und schufen die diversen Provinzen und Territorien gegründet, so z.B. Yukon, das infolge des Klondike-Goldrausches 1898 entstand.

Die Indianer mussten die Konsequenzen dieser Kolonisierung tragen und wurden in einigen Verträgen zwischen 1871 und 1921 mit Brosamen abgespiesen. Systematisch wurde versucht, sie zu assimilieren, gar mit dem Verbot des Gebrauchs ihrer Muttersprache. Erst 1960 erhielten sie politische Rechte auf nationaler Ebene.

1969 wurde Kanada mit einem entsprechenden Gesetz offiziell zum Zweisprachigenland. Alle Regionen haben nicht-englisch- oder französischsprachige Minderheiten, hauptsächlich Nachkommen der Ureinwohner . Offiziellen Status besitzen mehrere Sprachen der First Nations in den Nordwest-Territorien . Im hauptsächlich von Inuit bevölkerten Territorium Nunavut ist Inuktitut die Mehrheitssprache und eine von drei Amtssprachen. Mehr als 6,1 Millionen Einwohner bezeichnen weder Englisch noch Französisch als ihre Erstsprache.

(Teilweise aus wiki)

 


X I Gedanken zur Religion / annotazioni sulla religione  (15.8.2016)

(Viele Anregungen zu folgendem Text habe ich gefunden in: Zeitgeschichte. Gewalt im Namen Gottes: Vom Mittelalter bis zum Terror des IS. Heilige Kriege.  Nr. 2/2016)

Als Reisender begegnet man auf Schritt und Tritt der Religion, eine nahezu unumgängliche Erfahrung. Religion im Alltag der Menschen ist allgegenwärtig, und ihre Präsenz scheint gar im Zunehmen begriffen zu sein, gerade in den Ländern ausserhalb Europas, jedenfalls in Mittelasien. Im Gegensatz zu einem grossen Teil des säkularisierten Westens, prägen religiöse Wertsysteme das Leben der Menschen nicht nur im privaten sondern auch im öffentlichen Bereich. Es fällt auch auf, wie die Religion fast durchgehend einen bedeutsamen Einfluss auf die Kulturproduktion der Gesellschaften hat, so auf die meisten künstlerischen Ausdrucksformen. Man denke z.B. an die Typologien der Sakralbauten oder an die bildenden Künste, welche etwa in der islamischen Welt keine Menschenbilder darstellen dürfen und sich mit graphisch-geometrischen Motiven begnügen müssen.

Die unablässige Erfahrung religiöser Präsenz beim Reisen lässt einen deutlichen Kontrast eben zum Alltag von aufgeklärten (im philosophisch-politischen Sinne) Bürgern hauptsächlich im säkularisierten Europa entstehen, wo, infolge der zur tiefen Einsicht gewordenen Trennung zwischen Staat und Kirche, das Religiöse weitgehend aus dem öffentlichen Leben ausgespart bzw. verdrängt wird. Dies ist an sich ein Gebot der zu individuellen Recht avancierten Religionsfreiheit, das in den meisten Staaten der Vereinten Nationen verbürgt ist. Dass sich dieses Recht noch nicht durchgesetzt hat und zur Zeit offensichtlich gar zurückgedrängt wird, hat natürlich auch mit dem damit einhergehenden Prozess eines langwierigen, tiefgreifenden Kulturwandels in der Moderne zu tun. Religion war seit je – auch in den politheistischen Kulturen der Griechen und Römer ­– eher Ausdruck einer ganzen Lebenshaltung, inniger Bestandteil eines jeden Verhaltens. Im christlichen Abendland etwa durchdrang das religiöse Phänomen schlicht alles, das alltägliche Leben wie das gesellschaftliche Machtgefüge. Man kann sagen, dass eine nicht religiöse oder gar antireligiöse Lebenshaltung bzw. Weltanschauung vor der Neuzeit kaum existieren konnte, allenfalls nur im Rahmen von philosophischen Schulen.

Mit der Moderne hat sich erst ein neuer Begriff der ‚Religion’ und auch des ‚Religiösen’ herausgebildet, das aus dem Bewusstsein für die Bedeutung der Religion als selbständiges, nicht unbedingt mit dem übrigen Leben identisches Phänomen hervorgegangen ist. So hat mit der Reformation und Martin Luther im Christentum eine systematische Trennung zwischen Religion und Staat bzw. Politik eingesetzt und zur Einlösung der machiavellischen Perspektive beigetragen, dass ‚Petrus’ doch ein Staat für sich werden solle. Die Herausbildung einer selbständigen Institution der Kirche neben dem säkularisierten Staat vollzog sich im Verlaufe der letzten Jahrhunderte. Es waren dann auch die zumindest vordergründig hauptsächlich religiös motivierten Kriege im 16. und 17. Jahrhundert in Europa, die zu dieser Säkularisierung des politischen und zivilen Lebens Anlass gaben und zur Rückführung der Religion in den Privatbereich des Individuums bzw. in einen eigenen institutionellen Kontext führten. So schrieb John Locke, einer der Philosophen des Liberalismus, dass sie Trennung von Religion und Regierung schlicht eine notwendige Voraussetzung für die Schaffung einer friedlichen Gesellschaft sei. Die französische Revolution tat das Ihrige, ähnlich wie die Väter der amerikanischen Verfassung, welche der Trennung den Status der unhinterfragbaren Wahrheit zuteilten. Damit und in Überwindung des Prinzips ‚cuius regio eius religio’ aus den erwähnten Religionskriegen im 16. Jahrhundert wurde der Grundsatz der Religionsfreiheit statuiert.

Natürlich vollzog sich der Separierungsprozess, ein grundlegender Kulturwandel, nur gegen den Widerstand der ‚religiösen Machthaber und Interessenvertreter’, aber die modernen rechtsstaatlich fundierten Demokratien haben sich auf den Weg gemacht, das Prinzip umzusetzen und Verhaltens- sowie Umgangsformen zu verwirklichen, die zumindest in der Öffentlichkeit in der Regel frei von offenkundigen religiösen Merkmalen sind.

Nun scheint uns aber eine gewisse religiöse Realität wieder einzuholen. Unser Alltag wird wieder, direkt oder indirekt, stärker vom religiösen Phänomen geprägt und wir kommen nicht darum herum, uns intensiver damit zu befassen. Zu einem guten Teil hängt dies mit der ‚Globalisierung’ und mit den verstärkten Flüchtlingsströmen aus islamisch geprägten Ländern in Richtung Europa zusammen. Das Religiöse färbt v.a. indirekt auf unseren Lebensalltag ab, denn die internationalen Geschehnisse, allen voran die Zunahme eines häufig religiös begründeter Terrorismus, fordern nicht nur unsere politischen Systeme und unser Wertgefüge heraus, etwa bezüglich der Beziehung zwischen Freiheit und Sicherheit, sondern verursachen Unsicherheit und rufen Besorgnis hervor. De facto hat sich ein schleichender religiöser Kampf von Osten nach Westen, vom islamisch geprägten Morgen- zum christlichen Abendland ausgebreitet, ein Krieg der de dacto nicht nur gewalttätig daher kommt, sondern sich auch organisierter kultureller Okkupationsformen zu bedienen scheint. In den letzten zwei Dezennien hat jedenfalls die Zunahme des Terrorismus und von islamisch inspirierten Gewaltakten die Grundlagen unserer freiheitlich-demokratischen Staaten ins Wanken gebracht. Der aktuelle Terrorismus ist offensichtlich wesentlich religiöser begründet, auch wenn seine Ursachen viel breiter im ökonomischen, politischen und kulturellen Kontext zu suchen sind. Insofern ist die Sicht Huntingtons eines Kampfes der Kulturen zwischen Islam und Christentums trotz berechtigter Kritik nicht zu unterschätzen. Und auch der Versuch von Papst Franziskus, die religiöse Identität des Terrorismus zu negieren kommt reichlich naiv und instrumentalisiert daher.

Wir beobachten heute einerseits, dass die Muslime mit unglaublicher Grausamkeit und Unmenschlichkeit im Namen Allahs in den Jihad ziehen und gleichzeitig untereinander ebenfalls Krieg führen – zwischen Sunniten und Schiiten –, andererseits sehen wir wie im Westen religiös geprägte Orientierungen wieder Auftrieb erhalten, vorab im rechten politischen Spektrum, und sich u.a. zu manifesten Formen religiöser Intoleranz und speziell gar Islamophobie verdichten.

Wir wissen dass Gewalt, mit Grausamkeiten und Mord, unabhängig von religiösen Hintergründen quasi zum Potenzial des Menschen gehört wie seine Fähigkeit, Liebe und Kunst in höchstem Masse zu pflegen. Und dennoch: Wie ist es denn möglich, dass die Menschheit im Namen Gottes wiederholt und uneinsichtig soviel Krieg und Grausamkeit anrichten kann? Sind Dogmatismus und Intoleranz fürs religiöse Wesen derart konstitutiv, dass sie auch Gewalt und Krieg mehr begünstigen und beschützen als zurückdämmen? Sind sie sogar dazu angetan, das Böse im Menschen in vielen Fällen zu fördern und legitimieren? Eben, im Namen Gottes…, wie man es häufig gesehen hat, z.B. beim im Rahmen der Kreuzzüge gesuchten Martyriums, und auch zur Zeit im Terrorismus im Namen Allahs beobachten kann?

Als im Mittelalter in Ost und West die Religion einfach konstitutiver Bestandteil des Lebens war, hatten auch Kriege gezwungenermassen eine religiöse Identität. Insbesondere die Kreuzzüge, die im Namen Gottes geführt wurden, stellen eine extreme Darstellung religiöser, sakralisierter Gewalt. Animiert vom blinden Glauben, und wohl auch von den in der Bibel legitimierten Gewaltexzessen, schreckten Ritter und Kreuzfahrer vor keiner Gewalt zurück: als sie im ersten Kreuzzug 1099 in Jerusalem eindrangen richteten sie ein furchtbares Blutbad unter den Muslimen an. Irgendwie scheinen solche Ereignisse auch die kollektive Erinnerung und das Bewusstsein zu prägen. Die Kreuzzüge, die natürlich auch der Eroberung der Märkte dienten, und in ihren späteren Phasen speziell der Festigung der Macht von Handelsstädten wie Venedig und Genua dienten, machten sich die justa causa (Augustinus) zum Motto. Der Islam als ebenfalls monotheistisch-missionarische Religion verhielt sich nicht anders.

Es sei nochmals hervorgehoben: Rein religiöse Kriege hat es nie gegeben, sogar die Kreuzzüge als ‚klassische Gotteskriege’ waren politisch und ökonomisch mitbegründet. Die Frage lässt sich deshalb nur sinnvoll angehen, wenn man sich zu vergegenwärtigen versucht, was ‚Religion’ überhaupt ist. Wie gesagt, Religion im heute gängigen Verständnis ist ein Resultat neuzeitlicher Kultur und existierte im Altertum und Mittelalter nicht. Insofern war das Religiöse normaler Bestandteil des Lebens und alle vormodernen Kulturen hatten ausnahmslos eine Religion.

Der heutige Begriff stammt etymologisch vom Lateinischen religio ‚gewissenhafte Berücksichtigung‘, ‚Sorgfalt‘, bzw. relegere ‚bedenken‘‚achtgeben‘, wobei „die gewissenhafte Sorgfalt in der Beachtung von Vorzeichen und Vorschriften“ gemeint ist.

Substantiell lässt sich sagen, dass Religionen Systeme zur Steuerung menschlichen Verhaltens sind, die auf den Glauben an bestimmte transzendente (überirdische, übernatürliche, übersinnliche) Kräfte, vorab göttlicher aber auch magischer Natur, gründen. Sie finden offensichtlich ihre Basis zum Einen in einem menschlichen Bedürfnis nach Sinn, Klärung, Schutz usw. und zum Anderen in der Notwendigkeit nach sozialen Regelungsmechanismen.

Wenn sie menschliche, d.h. individuelle wie soziale Grundbedürfnisse zu befriedigen vermögen, dann rücken Religionen in unmittelbare und unvermeidbare Nähe zur Problematik der Macht von Menschen über Menschen. Als Systeme der Sinngebung und als Steuerungsinstrumente menschlichen Verhaltens sind Religionen deshalb auch Machtinstrumente. Die dazu spezifischen Mechanismen wurden von den unzähligen Religionen, die der Mensch erfunden und entwickelt hat geradezu in genialer Weise entfaltet. Dabei haben Zeichen der symbolischen Machtdemonstration wie Sakralbauten oder Rituale, die einen direkten Bezug zu Gott oder anderen übernatürlichen Kräften herstellen immer eine besonders wichtige Rolle gespielt.

In den monotheistischen Offenbarungsreligionen ist dieser Bezug nicht hinterfragbar und hat gezwungenermassen jenen Dogmatismus zur Folge, der machtpolitisch relativ leicht zu instrumentalisieren ist. Die Kette dieser Ausnützung hat wohl soziale wie individuelle Komponenten, wie man es im Christentum sehr einsichtig und beispielhaft am heiligen Sakrament der Beichte absehen kann: Das Ritual nämlich, dem Beichtenden ein persönliches Bedürfnis zu befriedigen, worauf der Beichtnehmende eine individuelle und soziale Kontrollmacht aufbauen kann. In den pluritheistischen Religionen ist hingegen dieser Bezug individueller und ‚menschlicher’, da Götter nicht einfach eine metaphysische Natur aufweisen, sondern sozusagen ein gemeinsames Leben mit den Menschen führen.

Nachdem die Entwicklung des philosophischen und wissenschaftlichen Denkens am Anfang der Neuzeit zu den Exzessen religiöser Macht geführt hatte, etwa mit Galileo, Bruno oder aber mit der Inquisition, haben die Moderne und insbesondere die Aufklärung den religiösen Diskurs zum unabdingbaren Gegenstand kritischer Auseinandersetzung gemacht. Rousseau hat die Religionskritik im ‚Contrat social’ auf den Begriff gebracht, indem er sie als Quelle von Krieg und Missbrauch, gleichzeitig aber auch die Authentizität religiöser Gefühle im Menschen identifizierte. Auf dieser Basis entstand auch die Idee einer Zivilreligion, die, in Anerkennung einer Existenz Gottes, den Ansprüchen einer aufgeklärten, toleranten Gesellschaft gerecht werden könne. Ausgehend von der Annahme, dass das Böse dem Menschen inne wohne (vgl. auch Hobbes), plädierte Kant für eine Vernunftreligion, die moralisch zu begründen sei und die durchaus in einem agnostischen Rahmen konzipierbar sei. Die Kritik wurde mit Feuerbach und Marx (Religion als Opium fürs Volk), mit Nietzsche und dann mit Freud radikaler. Freud hielt Religion für Zwangsneurose und kindliches Abwehrverhalten.

Die Soziologie hat sich ihrerseits auch des religiösen Diskurses bemächtigt, etwa vorerst mit Durkheim, der die Machtkomponente der Religion durchleuchtete, oder dann mit Max Weber, der deren ökonomische Wirkung reflektierte, vorab mit der Analyse des Einflusses der protestantischen Ethik auf die Entwicklung des Kapitalismus.

In Europa ist die Säkularisierung des öffentlichen und privaten Lebens weit voran geschritten und veranlasste bereits im 19. Jh. Nietzsche zur Behauptung „Gott ist tod“. In der übrigen Welt haben aber insbesondere Islam, Christentum und Buddhismus an Bedeutung gewonnen. Nach dem Rückgang der sowjetischen Herrschaft ist dies in Mittelasien der Fall, aber selbst in Russland, wo nach einem Jahrhundert des Atheismus die orthodoxe Kirche offensichtlich und nicht uneigennützig zur Stütze des neuen Machtgefüges wird. In den USA und in Lateinamerika hat die Religion nie aufgehört ein wichtige Rolle zu spielen. Nicht zu reden von der arabischen Welt oder vom Iran, wo das Prinzip der Religionsfreiheit und die Trennung von Staat und Kirche nicht einmal als diskussionswürdig betrachtet werden.

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Die Abgrenzung der Weltreligionen geht auf Max Weber zurück, der folgende Unterscheidung vornahm:

Christentum (heute 2.3 Mrd. Anhänger), Islam (1.6), Hinduismus (940 Mio.), Buddhismus 460) und Konfuzianismus (6). Weber zählte noch eine sechste dazu, das Judentum (15), weil sie für das Verständnis von Christentum und Islam von besonderer Bedeutung sei, zumal alle drei auf den abrahamitischen Monotheismus zurückgehen. Von diesen Religionen sind eigentlich nur das Christentum und der Islam auf Missionierung ausgerichtet. Der Hinduismus ist seinerseits sehr stark an eine die soziale Struktur der Kasten gebunden.

Die ersten Formen von Religion gehen auf Bestattungen und Grabbeigaben, die archäologisch auf etwa 120000 Jahre zurückdatiert werden. Ab etwa 40000 Jahre sind auch künstlerische Ausdrucksformen (Skulpturen, Malereine, usw.) vorhanden.

  1. Abrahamitische Religionen

(teilweise aus wiki)

Abraham (hebräisch אַבְרָהָם Avrāhām „Vater der vielen [Völker]“, aramäisch ܐܒܪܗܡ Abrohom, arabisch إبرَاهِيم Ibrāhīm) ist als Stammvater Israels eine zentrale Figur des Alten Testaments. Genauso gilt er als Stammvater der Araber; von seinem Sohn Ismael soll der Prophet des Islam, Mohammed, abstammen. Abrahams Geschichte wird im biblischen Buch Genesis bzw. Bereschit (Gen 12–25 EU) erzählt. Danach gehört er zusammen mit seinem Sohn Isaak und seinem Enkel Jakob zu den Erzvätern, aus denen laut biblischer Überlieferung die Zwölf Stämme des Volkes Israel hervorgingen.

Da sich sowohl Judentum, Christentum als auch Islam auf Abraham als ihren Stammvater beziehen, bezeichnet man sie auch als die drei abrahamitischen (Welt-)Religionen.

Außerhalb der biblischen Erzählungen und davon abhängigen Traditionen gibt es keine Nachweise für die Existenz Abrahams. Die Zeit, in welcher die Abraham-Erzählungen des Tanach stattfinden, wird im Allgemeinen mit dem Beginn des 2. Jahrtausends v. Chr. angesetzt.

1.1 Juden (ca. 15 Mio.)

Juden verehren den Gott Jahwe als Schöpfer der Welt. Gemäss der Überlieferung stehen die jüdischen Überväter Abraham, Isaak und Jakob, die die semitischen Stämme anführten im Bund mit Gott und deshalb halten sich die Juden als auserwähltes Volk Gottes. Das Judentum als Religion soll von Moses, dem höchsten Propheten aller Zeiten gestiftet worden sein, kennt kein geistliches Oberhaupt und bezieht sich auf die Schrift (Tanach, Talmud). Juden erwarten den Messias der Israel erlösen soll.

Im Zeitalter der Aufklärung kam es innerhalb des Judentums zur Diskussion über den Sinn mancher Gesetze der Tora. Das Reformjudentum postulierte seit dem 19. Jahrhundert eine Unterscheidung zwischen universalen religiösen Werten und historisch bedingten religiösen Ritualgesetzen, deren Anpassung an die Gegenwart gefordert wurde. In West- und Mitteleuropa waren die Assimilationsbestrebungen weitaus stärker als in Osteuropa, wo die Juden vielerorts bis ins 20. Jahrhundert als Nationalität galten. Liberale jüdische Gemeinden – z. B. in den USA oder Großbritannien – vertreten heute eine weniger strenge Fassung des Begriffs „Jude“.

Die mittelalterliche Beschränkung der Juden auf wenige erlaubte Berufe führte dazu, dass der Begriff des Juden noch in der 4. Auflage des Concise Oxford Dictionary von 1950 in seiner übertragenen Bedeutung als „maßloser Wucherer“ definiert wird.

Zionismus (von Zion, dem Namen des Tempelberges in Jerusalem) bezeichnet eine politische Ideologie und die damit verbundene Bewegung, die auf die Errichtung, Rechtfertigung und Bewahrung eines jüdischen Nationalstaats in Palästina abzielt.

Nach der Zerstörung des um 800 v. Chr. am Tempelberg erbauten ersten Jerusalemer Tempels (586 v. Chr.) und der Exilierung eines Großteils der Judäer wurde Zion im Babylonischen Exil (586–539 v. Chr.) zum Synonym für die Tempelstadt und die mit ihrem Wiederaufbau verknüpften Hoffnungen des Judentums.

Während der römischen Herrschaft über Judäa kam es wiederholt zu jüdischen Aufständen gegen die römische Besatzungsherrschaft. Im Jahr 70 zerstörten die Römer den zweiten Jerusalemer Tempel und deportierten zahlreiche Bewohner Judäas nach Rom.

In der Spätantike und im frühen Mittelalter lebten die Juden anfänglich als geduldete Minderheiten in zahlreichen Diaspora-Gemeinden. Mit der Verbreitung des Christentums verschlechterte sich ihre Situation in den christlichen aber auch in den muslimischen Ländern. Die in Palästina verbliebenen jüdischen Gemeinschaften wurden 1096, beim Ersten Kreuzzug, von den Kreuzfahrern nahezu ausgerottet.

In der Neuzeit lehnten die meisten europäischen Juden die Auswanderung nach Palästina und das Programm einer zionistischen Nation ab. Für orthodoxe Juden war ursprünglich die Rückkehr nach Eretz Israel nur denkbar durch das Eingreifen Gottes in die Geschichte, das Menschen durch ihr Vorgreifen nur aufhalten, liberale Juden betrachteten sich als Angehörige ihrer jeweiligen Nationen und traten dort für ihre Emanzipation ein, die ihnen mehr religiöse Toleranz und demokratische Rechte bringen sollte. Sie betrachten den Zionismus als Gefährdung ihrer sozialen Assimilation und als Verrat an ihrer Nation, sowie als Faktor, der dem Antisemitismus Vorschub leistete. 1912 wurde in Deutschland das Antizionistische Komitee gegründet, das den Zionismus energisch als schädlichen und das Judentum spaltenden Chauvinismus bekämpfte.

Antisemitismus. Im 19. Jahrhundert verbreitete sich der Antisemitismus als politische Ideologie in Europa, vor allem in Russland, Deutschland, Österreich und Frankreich. Sein Ziel war die Ausgrenzung und Vertreibung aller, der getauften wie sozial integrierten Juden. Die Begrenzung und Rücknahme gerade erst erworbener Bürgerrechte der Juden verlangten darüber hinaus bürgerliche und christlich-konservative Gesellschaftskreise, wie der Berliner Antisemitismusstreit zeigte. Dies stellte sämtliche Versprechen des Liberalismus von Gleichheit und Toleranz in Frage und ließ sie mehr und mehr als Illusion erscheinen. Im März 1881 kam es in Russland zu einer Pogromwelle, die den Auftakt für weiteren schweren Ausschreitungen gegen Juden in den Folgejahren bildete. Sie wurden oft von lokalen Autoritäten initiiert oder angeführt und vom Zarismus geduldet und geschürt.

Die nationalsozialistische Judenverfolgung beschleunigte den Zustrom europäischer Juden nach Palästina ab 1935 erheblich.

Mit dem Überfall auf die Sowjetunion am 22. Juni 1941 begann der Holocaust (auch Schoah genannt) mit organisierten Massenmorden zunächst an sowjetischen Juden und Deportationen deutscher und osteuropäischer Juden in Ghettos und Lager in Osteuropa. Zwischen Juli und Oktober 1941 fielen die wichtigsten Entscheidungen zur Ausweitung der Judenvernichtung: Nun begann der Bau von Vernichtungslagern, und für deutsche Juden wurde reichsweit das Tragen des Judensterns angeordnet.

Staat Israel. Am 14. Mai 1948 verlas David Ben Gurion in Tel Aviv die israelische Unabhängigkeitserklärung; damit wurde das zionistische Ziel eines Judenstaates erreicht. Die USA erkannten den neuen Staat am selben Tag, die Sowjetunion am 17. Mai an. Das britische Mandat endete am 15. Mai: Mit Beginn dieses Tages griffen die Armeen Transjordaniens, des Irak, des Libanon, Ägyptens und Syriens Israel an. Israel besiegte sie im Palästinakrieg mit Hilfe von Waffenlieferungen aus West- und Osteuropa, der Sowjetunion und den USA. Nun begann die legale Masseneinwanderung von Juden aus Europa in Israel. Als ersten gesetzgeberischen Akt verabschiedete die Knesset 1950 das Rückkehrgesetz, das allen Juden das Recht zusichert, sich in Israel niederzulassen und sofort die israelische Staatsbürgerschaft zu erhalten.

 

1.2 Christen (2.3 Milliarden)

Die Christen verehren Jesus von Nazareth als den Sohn Gottes, der durch seinen Tod am Kreuz die Menschen von ihrer Schuld erlöst hat. Zwar ist das Christentum monotheistisch, jedoch bildet Gott Vater mit dem Heiligen Geist und dem Sohn Jesu die Dreifaltigkeit. Damit ist Jesus nicht einfach ein Prophet sondern zugleich Gott (im Gegensatz zu Mohamed). Das Christentum ist, zusammen mit dem Islam, ausdrücklich missionarisch ausgerichtet, d.h. es fühlt sich dazu berufen, Nichtgläubige und Andersgläubige von der Wahrheit der eigenen Botschaft zu überzeugen.

Mit der Geburt Jesus setzt die christliche Zeitrechnung an, was natürlich ein einschneidendes kulturelles Merkmal unserer Zivilisation ist.

Die zahlreichen Konfessionen bzw. Kirchen innerhalb des Christentums lassen sich in vier Hauptgruppen zusammenfassen: die römisch-katholische Kirche, die orthodoxen Kirchen, die protestantischen und die anglikanischen Kirchen.

Die erste Spaltung in der christlichen Welt erfolgte mit dem Konzil von Ephesos 431. Die Spannungen nahmen dann zu und 1054 kam es zum grossen Schisma: Der Papst und der Patriarch von Kostantinopel exkommunizierten sich gegenseitig, wodurch eine östlich-orthodoxe und eine westliche Tradition entstanden. Die Westkirche erfuhr dann eine Spaltung durch die Reformation woraus die evangelisch-protestantische und die anglikanische Kirche entstanden.

1.3 Der Islam (1.6 Milliarden)

Mohamed, der Prophet, verkündete im Koran den muslimischen Glauben, den er vom Engel Gabriel empfangen hatte. Dies geschah in Mekka und Medina zwischen 622 und 632. Gemäss den Versen des Korans gelten im Alltag der Muslime fünf Grundsätze: das Glaubenbekenntnis (Shahada, es gibt keinen Gott ausser allah), fünf Mal täglich beten (Salat), Fasten im Ramadan (Saum), Unterstützung der Bedürftigten (Zakat, Almosenabgabe), Pilgerfahrt nach Mekka (Haddsch).

Das arabische Wort Islām (islām / إسلام) leitet sich als Verbalsubstantiv von dem arabischen Verb aslama („sich ergeben, sich hingeben“) ab und bedeutet mithin „Unterwerfung (unter Gott)“, „völlige Hingabe (an Gott)“.

Die islamische Expansion unter den Kalifen ʿUmar ibn al-Chattāb und ʿUthmān ibn ʿAffān führte dazu, dass die Muslime bis zur Mitte des 7. Jahrhunderts die Herrschaft über den Irak, Syrien, Palaestina (jeweils bis 636/38), Ägypten (640/42) und außerdem große Teile des Irans (642/51) erlangten. Damit war die Spätantike, in dessen historischen Kontext der Islam entstand, im östlichen Mittelmeerraum endgültig beendet. Die Bewohner der von den Muslimen eroberten Territorien traten zum größten Teil nicht direkt zum Islam über, sondern blieben ihren früheren Religionen (Christentum, Judentum und Zoroastrismus) zunächst treu. Dies war deswegen möglich, weil ihnen als Angehörigen einer Buchreligion Schutz ihres Lebens und ihres Eigentums sowie die Erlaubnis, ihre Religion auszuüben, gewährt wurde. Dieses Schutzverhältnis verpflichtete sie jedoch umgekehrt zur Zahlung einer besonderen Steuer, der Dschizya. Christen, Juden und Zoroastrier durften zudem ihren Glauben nicht öffentlich verrichten, keine neuen Kultgebäude errichten und keine Waffen tragen, später kamen noch andere Restriktionen hinzu (wie teils spezielle Kleidungsvorschriften). Somit waren die vom Islam anerkannten andersgläubigen „Schutzbefohlenen“ (vor allem Juden und Christen) den Muslimen rechtlich nicht gleichgestellt und in der Ausübung ihrer Religion eingeschränkt. Sie durften aber nicht mit Zwang bekehrt werden.

Der Islam fand sehr schnell eine breite Expansion, mittels Handel und Krieg, spaltete sich aber auch sofort nach dem Tod des Propheten in die zwei Hauptschulen der Schiiten und Sunniten. In Kerbala fand 680 eine Schlacht statt, wo der sunnitische Kalif den schiitischen Imam Hussein tötete. Seither wurde der Konflikt zwischen den beiden Richtungen nie mehr beigelegt und ist heute intensiver denn je. Die Schiiten fühlen sich seit 680 erniedrigt.

Die Schiiten nach dem Begriff schīʿa (شیعه / šīʿa / ‚Anhängerschaft, Partei‘), der verkürzt für „Partei Alis“ steht, sind der Auffassung, dass der Nachfolger Mohammeds ein Verwandter sein soll. Die Schiiten bilden heute etwa 10% des Islams und leben v.a. in Iran.

Die Sunniten bildeten sich als Gegenbewegung zur Schia. Der zugrundeliegende arabische Ausdruck ahl as-sunna (أهل السنة / ‚Leute der Sunna‘) betont die Ausrichtung an der Sunnat an-nabī, der Handlungsweise des Propheten. Der Nachfolger des Propheten kann gewählt werden und muss sich nach der Sunna ausrichten. Sie stellen etwa 85% der Muslime dar. Die Wahabiten sind eine Strömung des sunnitischen Islams und hegen den Anspruch, als einzige heute die richtige islamische Lehre zu vertreten. Sie sind gegenüber den Schiiten besonders aggressiv.

Die Schiiten pflegten jahrhundertelang generell eine Überlebensstrategie der Minderheit, nämlich stillhalten und anpassen. Allerdings konzentrierten sie sich auf Persien, das zu deren Machtzentrum wurde.

Im Verlaufe des letzten Jahrhunderts strahlte die westlich-europäische Zivilisation mit ihren aufklärerischen Werten immer intensiver auf die östliche Welt auszustrahlen. So kam es in Iran zu einer radikalen Umorientierung im westlichen Sinne und die Rolle der Religion wurde zusehends zurückgedrängt. Ähnliches geschah mit dem Untergang des ottomanischen Reichs und mit der Errichtung der modernen Türkei mit Atatürk (Entwicklung, die zur Zeit mit dem religiös-diktatorischen Regime von Erdogan offenbar zu einem jähen ende zu kommen scheint). In Iran gelang es dem Schah-Regime nicht eine stabile Demokratie zu errichten, nicht zuletzt weil es sich auf Kosten des Volkes zu bereichern wusste. So kam es zum Eclat ende der 70er Jahren. Parallel zur Machtergreifung von Saddam Hussein in Irak, der brutal gegen die Schiiten vorging, stellte sich mit der Rückkehr von Ajatollah Chomeini aus dem Pariser Exil eine erneute islamische Revolution ein und der Bruderkampf zwischen Schiiten und Sunniten begann schicksalhaft zu eskalieren. Saddam Hussein hatte sich eingebildet, den geschwächten Iran im Nu okkupieren zu können, hatte aber nicht mit der Widerstandsfähigkeit der Schiiten und mit ihrem religiösen Hang zum Märtyrertum. Wer heute durch Iran reist erblickt überall die gigantische Konterfei der jungen Märtyrer aus dem krieg mit Saddam. Damit werden auf Schritt und Dritt ein extremer religiöser Nationalismus und eine entsprechende Feindseligkeit geschürt.

In diesem historisch-kulturell-religiöser Kontext florieren einerseits die verschiedenen Sekten, die auf regionalen Interessen wachsen und andererseits die grossen Machtspiele, die nicht nur die regionalen sondern auch die internationalen Mächte involvieren. Als Nährboden dazu bietet sich dazu natürlich auch die brutale Machausübung der verschiedenen Herrscher in Syrien, in der Türkei aber auch in Arabien, in Nordafrika usw., die auch zu hoffnungsvollen aber mittlerweile frustrierten arabischen Frühling geführt haben.

Religion ist im mittleren Osten allgegenwärtig. Als gesellschaftliches Steuerungssystem, das gewissermassen alle übrigen Ideologiesysteme in den Hintergrund drängt, wird sie rücksichtslos ausgenützt, um die Machtkämpfe zu legitimieren. Die internationale Verstrickung, nicht nur infolge des Terrorismus sondern auch der sich neu definierenden Machtverhältnisse – z.B. zwischen Europa, Russland und Amerika –, gibt dem regionalen Parkett eine globale Dimension und macht die Suche nach friedlichen Lösungen zu einer schier unlösbaren Aufgabe.

Leider scheinen religiös-dogmatische Tendenzen auch die westlichen Demokratien zu gefährden, was die Lage sicherlich nicht entspannter macht. Etwas in diese Richtung lässt sich auch im nordamerikanischen Kontinent beobachten.

Deshalb: Affaire à suivre…

 


X Annotazioni sulla libertà / Gedanken zur Freiheit  (30.5.2016)

Nel cortile dell’hotel in cui sono alloggiato c’è una voliera di discrete dimensioni, costruita attorno a due alberelli. Di tanto in tanto mi ci siedo accanto a leggere e ad ascoltare il canto degli uccelli, soprattutto esotici, che si azzuffano e svolazzano, verosimilmente contenti dello loro stato, da un ramo all’altro degli alberi che danno al tutto una parvenza da ambiente naturale. Cerco di immaginare che cosa questi animali possano percepire. Apparentemente sono un tutt’uno con la realtà e le condizioni in cui si trovano, tutto sommato assai gradevoli, anche perché si trovano in abbondanza di nutrimento. Fuori della voliera si sono insediate diverse colombe, approfittando di comodi nidi già predisposti. Il loro spazio vitale non sembra essere molto più ampio rispetto a chi si trova all’interno della voliera. In compenso gironzolano continuamente in cerca di cibo.

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Così mi pongo il problema della libertà… Di primo acchito sono ovviamente portato a pensare che dentro la voliera sussiste uno stato di cattività, mentre le colombe fuori si ‘godono’ la libertà. Mettere in dubbio questa constatazione con l’abituale metro di giudizio del buon senso è difficile. Eppure gli interrogativi sono numerosi. A ragion veduta, ci si può chiedere chi sta meglio? Chi costretto entro condizioni assai gradevoli, rassicuranti e protette, oppure chi è fuori, esposto alle costrizioni, alle incertezze e ai rischi della natura? Non è in fondo la natura una sorta di gigantesca voliera, da cui la questione della libertà, più che essere qualitativa, diventa quantitativa? Oppure, a ben vedere, le colombe che sono ‘fuori’ hanno la possibilità di andarsene, quindi di decidere e scegliere il luogo dove stare, ammesso che la natura gliene abbia dato le facoltà. È forse questa l’essenza della libertà?

In ogni caso, voler discorrere di libertà significa porsi la questione dei limiti a cui essa è indissolubilmente vincolata. Gabbia piccola, voliera grande, voliera immensa?

Sono consapevole che abbordare la questione comporta il rischio di scadere nelle semplificazioni e nelle banalità. Ci provo comunque.

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La prima volta che mi sono posto il problema in modo esistenzialmente significativo e consapevole, quindi al di là di un normale confronto intellettuale e teorico, è stato quando, in viaggio verso mi sono trovato prima alla porta d’entrata del campo di concentramento di Auschwitz, poi a confronto con il retaggio del dominio sovietico nei paesi baltici, in particolare a Vilnius, capitale della Lituania, dove c’è un museo in memoria delle vittime del KGB e della sua attività protrattasi fino alla fine degli anni ’80. Ad entrambi i luoghi può essere attribuito un grande valore simbolico per le due tragedie sociali, quindi di sistema, del Novecento, il fascismo e il comunismo.

Incontro con la storia

In quei momenti ho avuto la sensazione di percepire il senso e l’importanza della libertà quale condizione umana fondamentale e irrinunciabile, il cui significato sovrasta in un qualche modo tutti gli altri possibili valori, anche quelli della triade rivoluzionaria: credo non sia un caso che ‘liberté’ abbia priorità nell’elenco rispetto a ‘fraternité’ (oggi diremmo forse ‘solidarietà’) e ‘égalité’.

Certo, la libertà, così come la intendiamo, vale a dire come possibilità di scegliere e di agire secondo la propria volontà e senza costrizioni, è espressione di una cultura, quella occidentale, che ha conferito all’umo in quanto soggetto e individuo un valore supremo, tuttavia è difficile immaginare come il senso dell’esistenza possa darsi laddove la libertà venga sradicata – o quantomeno drasticamente limitata – e barattata con altri valori. Occorre d’altro canto ammettere l’impossibilità di assolutizzare il discorso: in quanto categoria culturale, anche la libertà va concepita e interpretata entro un contesto storico. Pena lo scadimento in un discorso totalizzante, in senso sia politico che religioso. Così la libertà è sempre anche il risultato di un continuo processo, di una conquista continua. Laddove, come attualmente in Europa e nel mondo occidentale, ci siamo abituati ad uno stato di elevata libertà, grazie a mezzo secolo di pace e prosperità, la consapevolezza per la sua importanza sta forse scemando, il che non fa che favorire i rischi totalitari, oltretutto, e sia detto di transenna, con delle risorse tecnologiche che ne possono facilitare enormemente le limitazioni.

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Mettersi in viaggio è in un certo senso un’esperienza di libertà. A dire il vero, la ricerca di libertà non è stato per me un motivo determinante nel perseguire l’idea di girare il mondo in moto. Eppure, cammin facendo, la questione si è posta. Ho pur sempre lasciato alle spalle i tanti vincoli che caratterizzano la vita quotidiana a cui siamo abituati, con la possibilità di ‘fare quello che vuoi’, scegliere dove andare, dove fermarti, ecc. senza dover rendere conto a nessuno. Sullo sfondo si staglia la visione idilliaca della libertà, quella, per intenderci, che ha fatto grande la pubblicità della Marlboro: a cavallo nella prateria sconfinata… Ma è veramente così? In realtà questo tipo di libertà non è che un miraggio. Paradossalmente lo ‘sconfinato’ diventa confine, limite, e si fonde in un connubio indissolubile con la libertà, due facce della stessa medaglia.

Gli esistenzialisti moderni, sulla scia di Kirkegaard, hanno addirittura coniato il concetto di libertà come costrizione. L’uomo sarebbe condannato ad essere libero, in quanto i vincoli, di qualsiasi genere essi siano, naturali, sociali, fisici, mentali, ecc. sono dati e non possono essere visti come limitativi della libertà stessa. Così, in una nota parabola, anche il prigioniero resta fondamentalmente libero, libero di tentare la fuga. Dal canto loro gli antichi, dapprima nella tragedia greca poi nelle filosofie, in particolare nello stoicismo, hanno visto la libertà come accettazione del destino, a sua volta espressione di un equilibrio universale e delle leggi che lo reggono. Con il Cristianesimo la libertà si fa concetto religioso, diventa interiore e subordinata alla fede. Quindi, non può fare senso ribellarsi contro le costrizioni della società, ma occorre cercare la vera libertà in Cristo e quindi adeguarsi al destino prefigurato nelle disposizioni della legge divina, affidandosi alla promessa della libertà totale nell’aldilà. In genere, nella prospettiva religiosa la libertà diventa sostanzialmente libertà di scelta tra il bene e il male. Essendo tuttavia il bene prefigurato in modo vincolante, necessità predefinita, sussiste solo l’opzione accettazione vs. rifiuto. Di fatto si può essere veramente libero sollo attraverso l’atto della sottomissione al volere di Dio. Da un punto di vista religioso (teologico), i vincoli vengono assolutizzati e tradotti i disposizioni morali, da cui non è lecito transigere, pena la caduta nel male e in definitiva la morte. Resta comunque uno spiraglio nel senso della gradazione: se la trasgressione non è grave (ci stanno anche i peccati mortali…) esiste la possibilità di redimersi…

***

La tradizione filosofica occidentale ha affrontato e risolto il problema dei limiti e della necessità con varie sfumature. Il concetto è maturato pienamente nella modernità, quindi in parallelo con la crescita dell’idea di un individuo autonomo e indipendente, capace, come osserva Kant, di usare la propria intelligenza per liberarsi da qualsiasi giogo, non da ultimo dallo “stato di minorità imputabile a se stesso”.

Come si vede, i vincoli non sono solo esterni (naturali, sociali, fisici), sono anche interni (interiori), legati cioè al nostro essere, alla nostra identità, alle nostre capacità di volere. Dunque, meglio uno conosce se stesso, i propri limiti e le proprie risorse, meglio sarà in grado di fare scelte autonome e di essere libero. Come dire: per essere liberi occorre iniziare con il fare i conti con se stessi.

Parallelamente la libertà va vista come libertà da qualcosa (negativa) e libertà di fare qualcosa (positiva).

Per Kant la libertà diventa una categoria morale, da gestire attraverso la ragione. Grazie alla ragione l’uomo è in grado di distinguere il bene dal male e quindi è nelle condizioni di agire in modo consapevole e morale. L’agire libero è necessariamente agire morale, subordinato tra l’altro a degli imperativi categorici (“Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di legislazione universale“). Il senso del dovere, come agire morale, diventa fondamentale per la modernità, un pilastro della società borghese, e costituisce la base per il senso di responsabilità, quale condizione per la convivenza pacifica degli individui nelle democrazie moderne

Così, in senso morale, la libertà diventa “consapevolezza della necessità” (“Einsicht in die Notwendigkeit”): è libero colui che comprende, in modo autonomo e senza costrizioni, la necessità e agisce di conseguenza, vale a dire in modo responsabile. Il concetto verrà ripreso da Hegel (con la necessità a coincidere con lo spirito assoluto che si fa astutamente storia), ma anche da Engels in una prospettiva rivoluzionaria.

La libertà si dà e si sviluppa dunque entro delle necessità e dei limiti che, come detto, non sono assoluti ma possono variare ed essere vissuti soggettivamente in modo diverso. Si tratta dunque di poter definire dei limiti invalicabili, ultimi, oltre i quali l’esercizio della libertà non può andare. John S. Mill nel suo saggio sulla libertà ha definito uno di questi limiti, una sorta di criterio che andrebbe applicato nella limitazione della libertà individuale:

“That the only purpose for which power can be rightfully exercised over any member of a civilized community, against his will, is to prevent harm to others. His own good, either physical or moral, is not a sufficient warrant . . . Over himself, over his body and mind, the individual is sovereign.”

Il limite è quindi dato dall’incolumità fisica e morale dell’individuo.

Nel corso della modernità, il valore della libertà è diventato determinante per la sviluppo delle società democratiche, le cui costituzioni definiscono in posizione di preminenza sotto forma di diritti le libertà garantite. Gli stati di diritto sono d’altro canto fondati su sistemi politici che, a tutela della libertà, assicurano da un lato indipendenza ed equilibrio tra i tre principali poteri (giuridico, legislativo, esecutivo) e dall’altro lato la separazione tra Stato e religione, con quest’ultima ad essere uno dei diritti privati de libero cittadino.

Una nota importante va fatta sul complesso rapporto del marxismo con la libertà. Marx ha definito due condizioni fondamentali per la liberazione dell’uomo: da un lato, in senso politico-economico, la liberazione della classe operaia del dominio borghese, dall’altro lato, in senso filosofico e culturale, il libero sviluppo di ogni individuo quale premessa per lo sviluppo di tutti.

In entrata a queste riflessioni ho fatto riferimento alle due tragedie del secolo scorso: il Fascismo e il Comunismo, i due regimi totalitari che, in maniera se non identica, quantomeno analoga, hanno negato ogni e qualsiasi libertà agli individui. Come è stato possibile tutto ciò? Come è stato possibile che il male, l’istinto della morte, Tanato, abbia prevalso sul bene, sul principio della vita, Eros, dopo che l’illuminismo sembrava aver gettato le basi culturali per fare della libertà, e quindi del rispetto dell’uomo in genere e dell’individuo in particolare, le basi di società democratiche e pacifiche? Perché l’uomo non è in grado di imparare dalla storia, e fare della libertà un valore inalienabile? Forse perché, a differenza di quanto si pensava nel positivismo ottocentesco, non esiste un vero e proprio progresso nella cultura umana. Perché ogni cultura ha un inizio e una fine in quanto risultante dall’agire degli individui. In questo viaggio mi sono reso conto di quante culture, di grandezza incomparabile, sia nate, cresciute per poi estinguersi sul giro di poche centinaia, anche di poche decine di anni. L’uomo è il vero e proprio limite di se stesso e della libertà. Molte di queste culture non erano costruite sui valori della libertà, ma anche la cultura moderna, fondata sull’illuminismo, non è stata in grado finora di reggere al destino di distruzione. Lo sarà in futuro? Sarà in grado l’uomo di avviare una nuova vera storia, magari sulle fondamenta di un vero e proprio mutamento antropologico, così come la tecnica sta ormai rendendo possibile? Oppure, in verità, la storia è destinata a ripetersi e l’uomo non farà che distruggere quello che ha costruito?

***

Il viaggio ci ha portati attraverso numerosi Stati. In ognuno di essi vige un diverso regime di libertà. Facciamo tre esempi.

Dapprima il Turkmenistan. Stato totalitario come, sembra, non ne esistono più tanti al mondo (questo è nonostante tutto un segno di progresso…). Il retaggio del totalitarismo sovietico si è condensato in una realtà fantasma, dove la gente non sembra quasi esistere, dissolta nell’uniformità di un regime poliziesco che verosimilmente nega qualsiasi libertà, pur concedendo un minimo benessere. Sullo sfondo, una classe dominante che vive nel lusso e nello sfarzo, esibendo verso l’esterno una grande e surreale messa in scena, …

Il secondo esempio è forse il più complesso. L’Armenia. Viaggiare in Armenia è cosa difficile, impegnativa. Uno stato e la sua gente che portano il grave retaggio della storia e di condizioni geopolitiche difficili faticano ad aprirsi al viaggiatore. La gente vive, la si incontra per le strade e pare essere abbastanza libera, ma in un qualche modo risulta prigioniera di sé stessa e, dopo tanti torti subiti, fra cui un genocidio, incapace di spezzare le pesanti catene e di dare luogo ad una nemesi storica. La tristezza la si vede scolpita nei visi degli armeni che cercano consolazione nel fatto stesso di esistere.

Il terzo esempio è la sorpresa. L’Iran. Certo, occorre distinguere. L’Iran resta ancora uno stato guidato da un regime di tendenza dittatoriale, saldamente fondato sui dettami dell’Islam, e appena riavviato a quelle aperture politiche che possono essere foriere di libertà. Eppure girando per l’Iran si respirano per così dire un’aria e un senso di libertà sorprendenti, veicolati dalla gente, autenticamente aperta e ospitale. Poco – forse solo i segni manifesti della religione e la difficoltà di uscire dal paese – sta a ricordare condizioni politicamente e culturalmente restrittive, a fronte di una libertà che non sembra solo essere vissuta interiormente, ma anche si manifesta nell’essere degli individui e favorirne l’indipendenza.

 

 


IX Zur Geschichte Mittelasiens  (4.5.2016)

Versuchen wir die unglaublich komplexe – es könnte ja nicht anders sein…– Geschichte Mittelasiens zuerst von vorne aufzurollen. In den letzten Jahren seit dem Zusammenbruch der Sowjetunion haben die 5 Länder Mittelasiens einen relativ selbständigen Weg eingeschlagen, mit eigener Verfassung, eigener Währung, eigener Schrift und Sprache. Die Unabhängigkeit wurde für Kasachstan, Kirgistan, Tadschikistan, Turkmenistan und Usbekistan 1991 erlangt. Der Einfluss russischer Politik und Kultur begann schon unter der Zaren-Herrschaft, etwa ab 1860 als Taschkent russisch wurde und dehnte sich im ausgehenden 19. Jh. in weite Teile Zentralasiens aus. Während dieser Zeit die verschiedenen Kahnate (von einem Kahn oder auch Emir regierten Regionen) hatten noch eine gewisse Selbständigkeit, auch etwa in kultureller Hinsicht. Besonders einschneidend war aber der postrevolutionäre sowjetische Einfluss ab 1920. Von da an fand eine radikale sozioökonomische und kulturelle Umstrukturierung statt, die ziemlich alles erfasste: Abschaffung des Privateigentums, Zwangskollektivierung, zentralistische Planwirtschaft, Gleichstellung der Frau, neues Bildungssystem, Schliessung von Moscheen und Medresen, Verbreitung des kyrillischen Alphabets, usw. Infrastruktur (Verkehrswege, Bahn…) und zentralistische Administration wurden aufgebaut und nicht zuletzt dank immensen Rohstoffvorräte finanziert, was einen gewissen Wohlstand gebracht hat.

Die ethnischen Konflikte machen sich aber Ende der 70er Jahre bemerkbar. Es brodelt überall und trotz Perestroika und Glasnost bricht das System schlusendlich zusammen.

Blenden wir nun zurück ins erste Jahrtausend als die Araber hier Fuss fassten und lange, ab 651 bis 874, die Region beherrschten. Die Araber hatten in dieser Zeit einen immensen Einfluss in kultureller und politischer Hinsicht: Ihre Macht brachte sie und den Islam, von Medina aus, nach Nordafrika, Spanien, ja bis nach Frankreich. Ihre Eroberungen fanden im Rahmen eines heiligen Krieges statt, wozu Allah durch seinen Propheten aufgerufen hatte! (haben soll…) U.a. führte dies später auch zur Reaktion des Christentums mit den Kreuzzügen. Die Araber verwalteten zuerst erfolgreich, die Hauptstadt wurde nach Bagdad verlegt, aber dann tauchten die ersten Spannungen auf. So ereignete sich ein Schisma, wie es sich für jede Religion gehört, die etwas auf sich hält… Mitte des 8. Jh. kam es zur Spaltung zwischen Schiiten im Osten und den Sunniten im Westen. Eine Art Nord-Süd-Achse, die sich mit der Zeit verfestigte und bis heute Konsequenzen zeitigt.

874 gelang es den Samaniden die Macht zu erzwingen, was zu einer relativ friedlichen Periode mit aufblühendem Handel bis 999 führte. Danach waren die Seldschuken an der Reihe deren Verdienste sich auch im architektonischen, wissenschaftlichen und kulturellen Leben sehen lassen.

So war die Zeit des Fluchs aus Nor-Osten gekommen: Gengis Kahn, 1155 geboren und 1227 gestorben, die „strafe Gottes“, setzte zu seinen Feldzügen an, die bis nach Westeuropa reichen sollten. Wo seine Horden durchkamen blieb nur Schutt und Asche zurück. Seine Söhne mit der goldenen und der weissen Horde eiferten ihm nach…

1220 fielen Buchara und Samarkand, und nach und nach alle Städte und Reiche westwärts. Die Mongolen konnten aber den Islam nicht ausrotten, der 1333 sogar in einigen Teilen zur Staatsreligion wurde. Die Aufteilung des mongolischen Reiches unter den Söhnen Gengis Kahns schaffte auch die Voraussetzungen für dessen Ende, da 1365 kam. Eine besondere Rolle dabei spielte Amir Timur, auch Tamerlan genannt, ein ‚geistiger Nachkomme’ der Mongolen. Timur baute ein riesiges Reich auf, seine Feldzüge, geführt mit den brutalen Methoden der Mongolen (in Indien soll er eine Pyramide mit 90000 Köpfen gebaut haben…), brachten ihn nach Weste wo er die osmanischen Türken besiegte und so den Untergang von Bysanz hinauszögerte, was von den Historikern als Glück für den Westen eingestuft wird. Timur, heute in Mittelasien im Rahmen der Suche nach neuen Identitäten, sehr verehrt, machte Samarkand zur Hauptstadt und seine Dynastie hielt bis 1507 durch.

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Das Reich von Amir Timur

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Mausoleum von Amur Timur in Samarkand

Danach brach das Reich auseinander, nicht zuletzt weil der Handel nicht mehr so intensiv und einträchtig war. Vasco de Gama hatte unterdessen (1498) den Seeweg nach Ostindien und Südafrika gefunden! In dieser Epoche profilierten sich allmählich die heutigen Völkerschaften: Kasachen, Usbeken, Kirgisen, Turkmenen, was u.a. zur Konstitution der bekannten Kahnate von Buchara, Chiwa und Kokant (1599-1867). Anfänglich war dies eine eigentliche Blütezeit, die etwa auch von der safawidischen Kultur in Iran beeinflusst wurde. Zugleich wurde aber auch die Trennung zwischen Schiiten und Sunniten gefestigt.

Parallel dazu hatte die Kolonialzeit eingesetzt. So versuchten die Engländer ihren Einfluss in Indien auszudehnen und zugleich die Reichweite der Russen einzudämmen: Man spricht vom „Great Game“ zwischen England und Russland, das sich zwischen 1825 und 1895 abgespielt hat. Nachdem Tashkent schon 1869 russisch wurde, gelangte Afgahnistan 1885, nach einem Abkommen mit den Engländern unter die Kontrolle der Zar.

Und damit sind wir wieder zu den Anfängen des 20. Jh. gelangt…

 


VIII IRAN: annotazioni sulla storia e la politica (24.4.2016)

Come tutte le storie anche quella dell’Iran è complessa e articolata. Cominciamo dal nome: Iran o Persia? Persia deriva dalla regione pars, coincidente con la provincia odierna Fars (nel sud, con capitale Shiraz). Gli Achemenidi, una delle dinastie più grandi, (559-330 a.C.) erano originaria di questa regione. Il nome Iran invece, per quanto strano possa sembrare deriva da aria, ossia gli ariani, popolo dell’altipiano iraniano già evocato da Erodoto. Purtropo la denominazione è a noi ben nota per essere stata utilizzata dall’ideologia nazista per in qualche modo legittimare il genocidio delle razze “non-ariane”. Il passaggio dal nome Persia a Iran è avvenuto nel 1935, non senza un’influenza diretta dei nazisti all’epoca molto presenti nel paese.

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L’Iran di oggi

Torniamo ora alla storia, ovviamente solo con l’intento di evocarne qualche momento. Merita certo attenzione l’epoca della già evocata dinastia degli Achemenidi che regnò nel sesto secolo a.C. fino all’invasione da parte di Alessandro Magno. L’impero degli Achemenidi venne fondato dal re Ciro II e si estese nel suo periodo più fulgido dall’Asia, all’Europa orientale fino all’Africa del Nord.

Una delle sue caratteristiche principali fu la multietnia, costituitasi grazie alla lungimiranza di Ciro II lasciava ampie libertà ai popoli sottomessi, di culto e di lingua. Così, ad esempio a Babilonia permise al popolo giudaico di mantenere la propria religione e anzi contribuì a costruirne il tempio. Nella storia iraniana vi quindi, tra l’altro, un rapporto ben diverso con gli ebrei di quanto non si constati oggi, anche se l’avversione degli iraniani si rivolge primariamente contro la politica sionista di Israele. Poi, come detto arrivò Alessandro Magno a cui fecero seguito diverse popolazioni (Parti, Sasanidi) fino alla conquista da parte degli arabi (633 d.C.) che introdussero l’Islam.

Fu poi la volta dei Selgiuchidi e dei Mongoli che dettarono legge fino all’avvento della dinastia safavide (1501-1732) che non solo imposero lo sciismo, ma diedero anche grande lustro a tutta la regione introducendola nell’era moderna. L’impero si estendeva alle regioni odieren dell’Azerbaigian, dell’Armenia, gran parte dell’Iraq, Kuwait, Georgia, Afghanistan e alcune parti dell’odierno Pakistan, Tagikistan, Turkmenistan, Turchia e Siria.

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L’impero dei Safavidi verso la sua fine

Dopo un interregno di dinastie locali, arrivò il periodo coloniale dei russi e in particolare degli inglesi. Le rivalità tra russi e inglesi non evitarono lo sfruttamento del paese e la messa in discussione della sua identità storico-culturale e si conclusero con la spartizione in zone d’influenza. La presenza inglese portò quantomeno ad una svolta costituzionale nel 1907 e poi nel 1925 all’avvento della dinastia dei Phalevi il cui regno si concluse nel 1979 con la rivoluzione khomeinista. I Phalevi, sulla scia di Atatürk in Turchia, diedero una svolta occidentale e secolarizzante al paese, nell’intento di contenere ed eliminare l’influenza religiosa. Negli anni venti e trenta fu forte la presenza tedesca con ingegneri, tecnici, consulenti, ecc. che contribuirono allo sviluppo economico e industriale del paese. Il perdurante sfruttamento delle risorse de paese da parte della casa regnante  (io ricordo bene lo scià a St. Moritz, con l’elicottero sul Corvatsch…)  provocò poi più tardi le reazioni popolari e religiose  che culminarono nella rivoluzione iraniana del 1979 e alla costituzione della repubblica islamica.

 

(Da wikipedia)

“Dal 1980 al 1988 il Paese è costretto a fronteggiare l’aggressione dell’Iraq di Saddam Hussein. Il dittatore iracheno, pensando che la rivoluzione e le epurazioni dei vertici militari persiani avessero molto indebolito l’Iran (un tempo “guardiano del Golfo Persico“), approfittando della sensibile ostilità della comunità internazionale verso il regime khomeinista e della fragilità della nuova Repubblica Islamica, cerca di strappare il controllo della provincia del Khūzestān, ricca di petrolio, in cui sono presenti forti gruppi di lontana origine araba. L’attacco di Saddam, che prese a pretesto alcune dispute territoriali mai risolte sullo Shaṭṭ al-ʿArab, invece di mettere in crisi il regime di Khomeini risvegliò il sentimento patriottico degli iraniani, ivi compresi quelli di ascendenza araba, e indirettamente contribuì a legittimare agli occhi degli iraniani il regime islamico.

L’Iran khomeinista resiste infatti all’urto e arresta quasi subito l’avanzata irachena grazie alla superiorità aerea e alla lealtà delle Forze Armate a fronte dell’aggressione. Il conflitto si trasforma quindi in una guerra di posizione, ma l’Iran vuole prendere l’iniziativa tramite una serie di offensive condotta dai Pasdaran, che puntano a far cadere il regime di Saddam Hussein. Il prezzo di questi attacchi terrestri fu altissimo in termini di vite umane e, per arrestarli, Saddam Hussein utilizza anche le armi chimiche, impiegate anche contro i Curdi ad Halabja. Il conflitto si protrae per ben otto anni. L’Iran, secondo la sua ottica, ne esce strategicamente vincitore, avendo bloccato le intenzioni espansionistiche di Saddam, anche se tatticamente non ci furono vincitori, e l’Iran fu anzi costretto ad accettare infine le offerte di pace precedentemente respinte con sdegno. Durante la guerra, mentre l’Iran rimane isolato, l’Iraq è finanziato dall’Egitto, dai Paesi arabi del Golfo Persico, dall’Unione Sovietica e dai Paesi del Patto di Varsavia, dagli Stati Uniti[69] (dall’inizio del 1983), dalla Francia, dal Regno Unito, dalla Germania, dal Brasile e dalla Repubblica Popolare Cinese (che vende però armi anche all’Iran). Tutti questi paesi forniscono intelligence, agenti per armi chimiche così come altre forme di assistenza militare a Saddam Hussein. Invece i principali alleati dell’Iran durante la guerra sono la Siria, la Libia e la Corea del Nord.”

 

La guerra con l’Irak isola l’Iran sul piano internazionale. L’era post khomeiniana inizia con la sorprendente vittoria di Mohammad Chatami nel 1997 che avvia riforme e una timida apertura, con liberalizzazioni in economia e nella stampa. Nel 2005 gli fa seguito Mahmud Ahmadinedschad che fa girare la ruota all’indietro, inasprisce la repressione e radicalizza la tensione internazionale, soprattutto sul piano dell’opposizione a Israele e degli impianti per l’arricchimento dell’uranio, e così l’Iran si ritrova  in uno stato di radicale isolamento economico e politico. Nel 2013 è Hassan Rohani a vincere le elezioni già al primo turno e da quel momento si delinea una politica moderata che porta ad un accordo sul programma atomico e in seguito, di recente, ad uno scongelamento dei rapporti economici e del relativo embargo con l’occidente.

 


VII GORGIEN: EIN AUFSTREBENDES LAND / GEORGIA: UN PAESE ALLA RICERCA D SE STESSO (17.4.2016)

Die vielen Eindrücke bestätigen es: Georgien ist ein aufstrebendes, nach Freiheit ringendes Land. Was vorgeht ist nicht nur der Versuch, sich aus Jahrhunderte alter Domination zu befreien, sondern sich endlich von den inneren Problemen mit den abtrünnigen Regionen von Abchasien und Südossetien zu lösen.

Dabei knüpft das Land an die goldene Zeit von Königin Tamara (1184-1213) an, die auch in kultureller Hinsicht eine Art vorgezogene Renaissance darstellt. Dies war die Zeit der Unabhängigkeit, weil sonst das Land bis zur Unabhängigkeitserklärung von 1991 immer von fremden Mächten dominiert wurde. Alexander der Grosse war da, dann die Römer, die Perser, die Araber, die Byzantier, die Seldschuchen, die Mongolen, die Osmanen und zuletzt von 1783 bis 1991, natürlich mit völlig unterschiedlichen Regimes, die Russen.

Die Geschichte ist spannend und lehrreich. Deshalb sollen nachfolgend einige Auszüge aus Wikipedia darüber Auskunft geben.

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The 29-year reign of Tamar, the first female ruler of Georgia, is considered the most successful in Georgian history, Tamar was given the title “king of kings” (mepe mepeta). She succeeded in neutralizing opposition and embarked on an energetic foreign policy aided by the downfall of the rival powers of the Seljuks and Byzantium. Supported by a powerful military élite, Tamar was able to build on the successes of her predecessors to consolidate an empire which dominated the Caucasus, and extended over large parts of present-day Azerbaijan, Armenia, and eastern Turkey as well as parts of northern Iran, until its collapse under the Mongol attacks within two decades after Tamar’s death in 1213

King Vakhtang VI ruled parts of fractured Georgia during Ottoman and Persian invasions. His efforts to secure aid from France and Vatican failed, sealing the fate of his Kingdom.[.

The revival of the Kingdom of Georgia was set back after Tbilisi was captured and destroyed by the Khwarezmian leader Jalal ad-Din in 1226. The Mongols were expelled by George V of Georgia, son of Demetrius II of Georgia, who was named “Brilliant” for his role in restoring the country’s previous strength and Christian culture. George V was the last great king of the unified Georgian state. After his death, different local rulers fought for their independence from central Georgian rule, until the total disintegration of the Kingdom in the 15th century. Georgia was further weakened by several disastrous invasions by Tamerlane. Invasions continued, giving the kingdom no time for restoration, with both Black and White sheep Turkomans constantly raiding its southern provinces. As a result, the Kingdom of Georgia collapsed into anarchy by 1466 and fragmented into three independent kingdoms and five semi-independent principalities. Neighboring large empires subsequently exploited the internal division of the weakened country, and beginning in the 16th century up to the early 19th century, Safavid Iran (and successive Iranian Afsharid and Qajar dynasties) and Ottoman Turkey subjugated the eastern and western regions of Georgia, respectively.

The rulers of regions that remained partly autonomous organized rebellions on various occasions. However, subsequent Iranian and Ottoman invasions further weakened local kingdoms and regions. As a result of incessant wars and deportations, the population of Georgia dwindled to 250,000 inhabitants at the end of the 18th century. Eastern Georgia, composed of the regions of Kartli and Kakheti, had been under Iranian suzerainty since 1555 following the Peace of Amasya signed with neighbouring rivalling Ottoman Turkey.

(…)

Georgia in the Russian Empire

In 1783, Russia and the eastern Georgian Kingdom of Kartli-Kakheti signed the Treaty of Georgievsk. The treaty, which recognized the bond of Orthodox Christianity between the Russian and Georgian people, established Georgia as a protectorate of Russia, and guaranteed Georgia’s territorial integrity and the continuation of its reigning Bagrationi dynasty in return for prerogatives in the conduct of Georgian foreign affairs.[45] Georgia at the same time, according the terms of the treaty, abjured any form of dependence on Persia (Iran) or another power, and every new Georgian monarch would require the confirmation and investiture of the Russian tsar.

(…)

However, despite this commitment to defend Georgia, Russia rendered no assistance when the Iranians invaded in 1795, capturing and sacking Tbilisi while massacring its inhabitants, as the new heir to the throne sought to reassert Iranian hegemony over Georgia.

(…)

From 1803 to 1878, as a result of numerous Russian wars now against Ottoman Turkey, several of Georgia’s previously lost territories – such as Adjara – were recovered, and also incorporated into the empire. The principality of Guria was abolished and incorporated into the Empire in 1828, and that of Mingrelia in 1857. The region of Svaneti was gradually annexed in 1857–1859.

Declaration of independence

Main article: Democratic Republic of Georgia Declaration of independence by the Georgian parliament, 1918 After the Russian Revolution of 1917, Georgia declared independence on 26 May 1918, in the midst of the Russian Civil War. The Menshevik Georgian Social-Democratic Party won the parliamentary election. Its leader, Noe Zhordania, became prime minister.

The 1918 Georgian–Armenian War, which erupted over parts of Georgian provinces populated mostly by Armenians, ended because of British intervention. In 1918–1919, Georgian general Giorgi Mazniashvili led an attack against the White Army led by Moiseev and Denikin in order to claim the Black Sea coastline from Tuapse to Sochi and Adler for independent Georgia. The country’s independence did not last long. Georgia was under British protection from 1918–1920.

Georgia in the Soviet Union

Despite the Soviet takeover, Noe Jordania was recognized as the legitimate head of the Georgian Government by France, UK, Belgium, and Poland through the 1930s.[

In February 1921, Georgia was attacked by the Red Army. The Georgian army was defeated and the Social-Democratic government fled the country. On 25 February 1921, the Red Army entered Tbilisi and installed a communist government loyal to Moscow, led by Georgian Bolshevik Filipp Makharadze.

Nevertheless, there remained significant opposition to the Bolsheviks, and this culminated in the August Uprising of 1924. Soviet rule was firmly established only after this uprising was suppressed.[58] Georgia was incorporated into the Transcaucasian SFSR, which united Georgia, Armenia and Azerbaijan. Later, in 1936, the TSFSR was disaggregated into its component elements and Georgia became the Georgian SSR.

Joseph Stalin, an ethnic Georgian born Ioseb Besarionis Dze Jugashvili (იოსებ ბესარიონის ძე ჯუღაშვილი) in Gori, was prominent among the Bolsheviks. Stalin was to rise to the highest position, leading the Soviet Union from 3 April 1922 until his death on 5 March 1953.

From 1941 to 1945, during World War II, almost 700,000 Georgians fought in the Red Army against Nazi Germany. There were also a few who fought on the German side. About 350,000 Georgians died in the battlefields of the Eastern Front.[59]

On 9 April 1989, a peaceful demonstration in Tbilisi ended with several people being killed by Soviet troops. Before the October 1990 elections to the national assembly, the Umaghlesi Sabcho (Supreme Council) – the first polls in the USSR held on a formal multi-party basis – the political landscape was reshaped again. While the more radical groups boycotted the elections and convened an alternative forum (the National Congress) with alleged support of Moscow, another part of the anticommunist opposition united into the Round Table—Free Georgia around the former dissidents like Merab Kostava and Zviad Gamsakhurdia. The latter won the elections by a clear margin, with 155 out of 250 parliamentary seats, whereas the ruling Communist Party (CP) received only 64 seats. All other parties failed to get over the 5 percent threshold and were thus allotted only some single-member constituency seats.

Georgia after restoration of independence

On 9 April 1991, shortly before the collapse of the Soviet Union, Georgia declared independence. On 26 May 1991, Gamsakhurdia was elected as the first President of independent Georgia. Gamsakhurdia stoked Georgian nationalism and vowed to assert Tbilisi’s authority over regions such as Abkhazia and South Ossetia that had been classified as autonomous oblasts under the Soviet Union.

He was soon deposed in a bloody coup d’état, from 22 December 1991 to 6 January 1992. The coup was instigated by part of the National Guards and a paramilitary organization called “Mkhedrioni” (“horsemen”). The country became embroiled in a bitter civil war, which lasted until nearly 1995. Eduard Shevardnadze (Soviet Minister of Foreign Affairs from 1985 to 1991) returned to Georgia in 1992 and joined the leaders of the coup — Tengiz Kitovani and Jaba Ioseliani — to head a triumvirate called “The State Council”.

Simmering disputes within two regions of Georgia, Abkhazia and South Ossetia, between local separatists and the majority Georgian populations, erupted into widespread inter-ethnic violence and wars. Supported by Russia, Abkhazia, and South Ossetia achieved de facto independence from Georgia, with Georgia retaining control only in small areas of the disputed territories. In 1995, Shevardnadze was officially elected as president of Georgia.

Roughly 230,000 to 250,000 Georgianswere massacred or expelled from Abkhazia by Abkhaz separatists and North Caucasian volunteers (including Chechens) in 1992–1993. Around 23,000 Georgiansfled South Ossetia as well, and many Ossetian families were forced to abandon their homes in the Borjomi region and moved to Russia.

In 2003, Shevardnadze (who won re-election in 2000) was deposed by the Rose Revolution, after Georgian opposition and international monitors asserted that the November 2 parliamentary elections were marred by fraud. The revolution was led by Mikheil Saakashvili, Zurab Zhvania and Nino Burjanadze, former members and leaders of Shevardnadze’s ruling party. Mikheil Saakashvili was elected as President of Georgia in 2004.

Following the Rose Revolution, a series of reforms were launched to strengthen the country’s military and economic capabilities. The new government’s efforts to reassert Georgian authority in the southwestern autonomous republic of Ajaria led to a major crisis early in 2004. Success in Ajaria encouraged Saakashvili to intensify his efforts, but without success, in breakaway South Ossetia.

These events, along with accusations of Georgian involvement in the Second Chechen War,[ resulted in a severe deterioration of relations with Russia, fuelled also by Russia’s open assistance and support to the two secessionist areas. Despite these increasingly difficult relations, in May 2005 Georgia and Russia reached a bilateral agreement by which Russian military bases (dating back to the Soviet era) in Batumi and Akhalkalaki were withdrawn. Russia withdrew all personnel and equipment from these sites by December 2007 while failing to withdraw from the Gudauta base in Abkhazia, which it was required to vacate after the adoption of the Adapted Conventional Armed Forces in Europe Treaty during the 1999 Istanbul summit.

Russo-Georgian War and since

Tensions between Georgia and Russia began escalating in April 2008. South Ossetian separatists committed the first act of violence when they blew up a Georgian military vehicle on 1 August 2008. The explosion wounded five Georgian peacekeepers. In response, Georgian snipers assaulted the South Ossetian militiamen during the evening. Ossetian separatists began shelling Georgian villages on 1 August, with a sporadic response from Georgian peacekeepers and other troops in the region. Serious incidents happened in the following week after Ossetian attacks on Georgian villages and positions in South Ossetia.

At around 19:00 on 7 August 2008, Georgian president Mikheil Saakashvili announced a unilateral ceasefire and no-response order. However, Ossetian separatists intensified their attacks on Georgian villages located in the South Ossetian conflict zone. Georgian troops returned fire and advanced towards the capital of the self-proclaimed Republic of South Ossetia, Tskhinvali, during the night of 8 August. According to Russian military expert Pavel Felgenhauer, the Ossetians were intentionally provoking the Georgians, so Russia would use the Georgian response as a pretext for premeditated military invasion. According to Georgian intelligence, and several Russian media reports, parts of the regular (non-peacekeeping) Russian Army had already moved to South Ossetian territory through the Roki Tunnel before the Georgian military operation.

(…)

Both during and after the war, South Ossetian forces and irregular militia conducted a campaign of ethnic cleansing against Georgians in South Ossetia, with Georgian villages around Tskhinvali being destroyed after the war had ended. The war displaced 192,000 people, and while many were able to return to their homes after the war, a year later around 30,000 ethnic Georgians remained displaced. In an interview published in Kommersant, South Ossetian leader Eduard Kokoity said he would not allow Georgians to return.

President of France Nicolas Sarkozy negotiated a ceasefire agreement on 12 August 2008. On 17 August, Russian president Dmitry Medvedev announced that Russian forces would begin to pull out of Georgia the following day. Russian forces withdrew from the buffer zones adjacent to Abkhazia and South Ossetia on 8 October and control over them was transferred to the European Union Monitoring Mission in Georgia.[

Russia recognised Abkhazia and South Ossetia as separate republics on 26 August 2008. In response to Russia’s action, the Georgian government severed diplomatic relations with Russia.[100] Since the war, Georgia has maintained that Abkhazia and South Ossetia are Russian-occupied Georgian territories.

 

VI DIE KURDENFRAGE / LA QUESTIONE CURDA  (8.4.2016)

Die Kurdenfrage

Eigentlich wären wir gerne nach Südanatolien gefahren, einerseits um die Quelle des Euphrats und des Tigris zu erkunden, andererseits um jene Gebiete zu bereisen, so in der Gegend von Dyarbakir, die seit je als Heimat der türkischen Kurden gelten. Natürlich mussten wir Behutsamkeit walten lassen und sind einfach nördlich vorbei gefahren, über Sivas und Erzurum. Allerdings werden wir es trotz aller Vorsicht bis nach Dogubayazit am Fusse des Ararats wagen. Dies ist eine kurdische Kleinstadt nahe der syrischen Grenze.
Eigentlich sah es vor etwas weniger als zehn Jahren danach aus, als sich die leidige Situation der Kurden in der Türkei langsam zum Besseren wenden würde. Dem sollte nicht so sein. Die dramatische Zuspitzung des Krieges in Syrien hat dies wohl entscheidend verhindert. Mit der Ausrufung des unheilvollen islamischen Staates (ISIS) in Syrien und Irak wurde die Lage vollständig destabilisiert und zu einem weiten Kriegsschauplatz mit der Präsenz der internationalen Mächte.

Erdogan, der sich, der sich zusammen mit dem damaligen Präsidenten Gül, noch vor einigen Jahren für eine Öffnung gegenüber den Türken ausgesprochen und das Kurdenproblem al solches zu akzeptieren schien, hat nun seit 2015 eine radikale Kehrtwende eingeleitet. Paradoxerweise haben die damaligen Wahlen mit der Überwindung der 10%-Hürde seitens der kurdischen Minderheit auch dazu beigetragen. Die Neuwahlen haben Erdogan gestärkt und ihn dazu verleitet, gar die ISIS für eine neue Kurdenoffensive in der Türkei sowie in Syrien und Irak.

Fakt ist, dass zur Zeit Südostanatolien von Militär und Polizei präsidiert ist. Gezwungenermassen machen wir also einen Bogen rund herum.

Zum Verständnis der Kurdenfrage nachfolgend ein Beitrag der Bundeszentrale für politische Bildung. Der etwas gekürzte Beitrag stammt aus 2009 und wiederspiegelt dementsprechend die damaligen Hoffnungen auf eine politische Lösung.

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(VON KURDEN BEWOHNTE GEBIETE 1992)

Aus: http://www.bpb.de

Ob man es nun das Terrorproblem nennt oder das Südost(anatolien)-Problem oder das Kurdenproblem: Dies ist das wichtigste Problem der Türkei. Es muss gelöst werden. Mit diesem Satz öffnete der türkische Staatspräsident Abdullah Gül im Mai 2009 ein neues Kapitel in der Kurdenpolitik seines Landes. Lange Jahre hatte der türkische Staat die Existenz einer kurdischen Bevölkerungsgruppe verneint; der Kurdenkonflikt wurde angesichts des bewaffneten Aufstandes der Arbeiterpartei Kurdistans (PKK) als reines “Terrorproblem” gewertet.
Güls Aussage markierte nicht nur deshalb eine Zäsur in der türkischen Kurdenpolitik, weil zum ersten Mal ein Staatsoberhaupt der Republik öffentlich von einem “Kurdenproblem” sprach, sondern seine Forderung nach einer Lösung fiel auch in eine Zeit, in der erstmals die wichtigsten Akteure der Kurdenpolitik in Ankara an einem Strang zogen.
Die Regierung hatte bereits zu Beginn des Jahres mit der Gründung des ersten staatlichen kurdischen Fernsehsenders der Türkei ein Zeichen gesetzt. Die Armee, vertreten durch Generalstabschef Ilker Başbuğ, betonte ihrerseits, dass militärische Mittel im Kampf gegen die PKK durch soziale, wirtschaftliche und kulturelle Maßnahmen flankiert werden müssten. Die türkische Opposition signalisierte ebenfalls ihren Willen zu politischen Schritten, um das Kurdenproblem zu lösen. Seit 2007 verfügen die türkischen Kurden zudem über eine eigene politische Vertretung im türkischen Parlament: Die 21 Abgeordneten der Partei für eine Demokratische Gesellschaft (DTP) bieten sich seit langem als Gesprächspartner des Staates an. Die PKK geriet unterdessen in ihrem Versteck im Nordirak unter immer größeren militärischen und politischen Druck.
Diese Konstellation mehrerer, für eine friedliche Lösung der Kurdenfrage wichtiger Faktoren ist in der jüngeren türkischen Geschichte einmalig. Vor vier Jahren hatte Ministerpräsident Recep Tayyip Erdoğan bereits Hoffnungen geweckt, als er als erster Regierungschef seines Landes öffentlich von einem “Kurdenproblem” sprach. Damals wurde Erdoğan jedoch von der Armee wegen seiner Haltung kritisiert. In der ersten Hälfte dieses Jahres entwickelte sich nun ein neuerlicher Optimismus – begünstigt durch eine enge türkisch-amerikanische Zusammenarbeit beim Kampf gegen die PKK im Nordirak auf militärischem Gebiet sowie durch eine Veränderung des politischen Klimas aufgrund früherer Reformschritte. Erdoğan brachte die Wiedereinführung kurdischer Ortsnamen für Dörfer im Kurdengebiet ins Gespräch, die insbesondere nach dem Militärputsch von 1980 türkische Namen erhalten hatten. Anfang Juni führte die staatliche Bühne in der osttürkischen Stadt Van als erstes Staatstheater der Türkei ein Stück in kurdischer Sprache auf.

Wsind die Kurden?
Wie so vieles in der emotional stark aufgeladenen Kurdenfrage, sind Beschreibungen dessen, was die Kurden als Bevölkerungsgruppe ausmacht, häufig umstritten. Grundsätzlich kann festgehalten werden, dass die Kurden ein Volk von vorwiegend sunnitischen Muslimen sind, das seit mehr als tausend Jahren im Osten der heutigen Türkei sowie im Nordwesten von Iran, im Norden Iraks sowie im nordöstlichen Syrien zu Hause ist. Seit dem Übertritt der kurdischen Stämme zum Islam im siebten Jahrhundert ist das Wort “Kurde” belegt.

Da sie über viele Länder verstreut leben, ist die Gesamtzahl der Kurden schwer zu ermitteln. Allgemein wird von 20 bis 25 Millionen Menschen ausgegangen, davon lebt rund die Hälfte in der Türkei. Einen eigenen Staat hatten die Kurden in ihrer Geschichte noch nie.

Die Kurden sprechen keine einheitliche Sprache. Zwei indo-germanische, mit dem Persischen verwandte Dialekte werden unterschieden: In Teilen Nordiraks, im Nordwesten Irans und in der Türkei herrscht Kurmancî vor, im Westen Irans und südlicheren Teilen des kurdisch besiedelten Nordiraks wird vor allem Sorani gesprochen, das auch die offiziell anerkannte Form des Kurdischen im Irak ist. Die Zersplitterung in etliche Einzelsprachen und Dialekte führt dazu, dass sich viele Kurden in ihren Muttersprachen untereinander kaum verständlich machen können. Selbst die kurdischen Rebellen von der PKK veröffentlichen ihre Erklärungen deshalb zumeist in türkischer Sprache, weil das Türkische für die Zielgruppe der PKK eine lingua franca bildet.

Geschichte der Kurden in der Türkei
Bereits in den Jahren nach der Gründung der modernen türkischen Republik 1923 gab es erste gewaltsame Auseinandersetzungen zwischen der Staatsgewalt und kurdischen Aufständischen. Mustafa Kemal “Atatürk”, der erste Präsident der Türkei, ließ 1925 einen Kurdenaufstand niederschlagen. Der Anführer der Kurden, Scheich Said, wurde gehenkt.

Das Kurdengebiet blieb in den Jahrzehnten darauf eine der ärmsten und der sozial rückständigsten Regionen der Türkei. Mit der Gründung der PKK im Jahr 1978 begann eine neue Phase. Die linksextreme Organisation unter ihrem Anführer Abdullah Öcalan wandte sich sowohl gegen die von der PKK beklagte Unterdrückung der Kurden durch den türkischen Staat als auch gegen deren Unterdrückung infolge der immer noch starken Feudalstrukturen. Durch den türkischen Militärputsch von 1980 zusätzlich radikalisiert, begann die PKK 1984 mit dem bewaffneten Kampf gegen Ankara. Die Organisation wird von der Türkei, der EU und den USA als Terrororganisation eingestuft.
Der türkische Staat antwortete mit der Aufstellung von Ankara-treuen Milizen, den so genannten Dorfschützern, und mit der Verhängung des Kriegsrechts in weiten Teilen des türkischen Kurdengebiets. Erst 2002 wurde das Kriegsrecht in den letzten beiden Provinzen aufgehoben. Im Zuge des Konflikts wurden mehrere tausend Dörfer von der Armee geräumt, um der PKK den Nachschub abzuschneiden. Millionen von Kurden flohen in die Großstädte der Region, in andere Teile der Türkei und nach Westeuropa. Nach Angaben der türkischen Armee starben seit 1984 rund 40.000 Menschen bei Gefechten und Gewaltaktionen.
Im Februar 1999 wurde PKK-Chef Öcalan von türkischen Agenten in Kenia gefasst und in der Türkei inhaftiert. Öcalan verbüßt zur Zeit eine lebenslange Haftstrafe auf der Gefängnisinsel Imrali bei Istanbul. Auf seinen Befehl hin zog sich die PKK aus der Türkei in den Norden Iraks zurück. Im Jahr 2005 nahm die PKK nach Jahren relativer Ruhe ihre Gewaltaktionen wieder auf, doch haben die Gefechte nicht mehr die Intensität der Kämpfe der späten 1980er und frühen 1990er Jahre erreicht.
Kürzlich betonte der in Öcalans Abwesenheit zum starken Mann der PKK aufgerückte Murat Karayılan in einem Interview den Willen seiner Organisation zu einer friedlichen Beilegung des Konflikts. Doch viele Beobachter in der Türkei halten Karayılan nicht für glaubwürdig, zumal es weiterhin vereinzelt tödliche Angriffe der PKK auf türkische Militärkonvois gibt. Karayılan betonte, die PKK habe das Ziel eines eigenen Kurdenstaates aufgegeben und strebe lediglich die Gleichberechtigung der Kurden innerhalb der türkischen Republik an. Eine Entwaffnung seiner Rebellen schloss Karayılan nicht aus, sagte aber, dies könne erst nach Gesprächen über die Voraussetzungen für einen endgültigen Gewaltverzicht geschehen.

Politik
Neben der verbotenen PKK, die für sich die Rolle einer politischen Vertreterin der Kurden in Anspruch nimmt, existiert auch eine legale Kurdenpartei, die DTP. Da sich Parteien in der Türkei nicht als Vertretung einzelner ethnischer Gruppen präsentieren dürfen, ist “Kurdenpartei” für die DTP zwar eine zutreffende, aber keine offizielle Bezeichnung. Aus Sicht der türkischen Justiz bildet die DTP den verlängerten Arm der PKK; vor dem Verfassungsgericht in Ankara läuft deshalb ein Verbotsverfahren gegen die Partei. Schon in den vergangenen Jahrzehnten waren mehrere Kurdenparteien wegen ihrer mutmaßlichen Nähe zur PKK aufgelöst worden, doch hatten sich die Kurdenpolitiker stets neu formiert.

Zur Lösung der Kurdenfrage muss die Türkei nach Ansicht der DTP mehrere Tabus überwinden. So fordern DTP-Politiker mehr politische Eigenständigkeit für das Kurdengebiet, was angesichts der zentralstaatlichen Ordnung der Türkei für die meisten anderen politischen Akteure ausgeschlossen ist. Zudem verlangt die DTP, dass bei der Suche nach einer Konfliktlösung die Ansichten des inhaftierten PKK-Chefs Öcalan sowie die PKK selbst berücksichtigt werden müssten. Beides wird von Ankara bisher strikt abgelehnt.
Bei der Parlamentswahl von 2007 umging die DTP die für den Parlamentseintritt einer Partei geltende Zehn-Prozent-Hürde, indem sie ihre Kandidaten als nominell Unabhängige aufstellte, für welche die Hürde nicht gilt. Nach der Wahl formierte sich dann im Parlament von Ankara die erste kurdische Parlamentsfraktion der türkischen Geschichte mit 21 Abgeordneten. Die meisten Kurden votierten bei der Wahl 2007 allerdings nicht für die DTP, sondern für Erdoğans religiös-konservative Regierungspartei AKP. Enge Kontakte konservativer Parteien zu kurdischen Clans haben eine lange Tradition. Clanchefs liefern den Parteien kraft ihres Einflusses auf die Angehörigen ihrer oft mehrere tausend Mitglieder umfassenden Sippen viele Wählerstimmen. Im Gegenzug können die Clanchefs mit dem Wohlwollen oder sogar der Patronage durch den Staat rechnen. Zur politischen Stärke vieler Clanchefs im Kurdengebiet trägt auch das Dorfschützersystem bei. In vielen Gegenden Südostanatoliens sind ganze Dörfer dafür bekannt, dass sie entweder den Dorfschützern angehören oder aber mit der PKK sympathisieren. Im strukturschwachen Kurdengebiet hat sich dieses System zu einer wichtigen Einkommensquelle vieler Familien entwickelt, die auf den Sold von umgerechnet etwa 250 Euro angewiesen sind.

Kultur
Lange sah Ankara die Assimilierung der Kurden als einzig gangbaren Weg an. Der öffentliche Gebrauch der kurdischen Sprache und die Aufführung kurdischer Lieder waren verboten. Dies führte dazu, dass viele der zehn bis zwölf Millionen Kurden zu Fremden im eigenen Land wurden. Da insbesondere auf dem Land zahlreiche Mädchen von ihren Eltern nicht zur Schule geschickt werden, gibt es in der Türkei Millionen von Frauen, die kein Türkisch verstehen. Bis vor kurzem war der PKK-nahe Satellitensender “Roj-TV” für diese türkischen Kurden die einzige moderne Informationsquelle, die ihnen zur Verfügung stand.

Im Rahmen der türkischen EU-Bewerbung lockerten sich in den vergangenen Jahren viele der Sprachverbote. Vorläufiger Höhepunkt dieser Entwicklung war der Sendestart für den Fernsehkanal “TRT 6” zu Beginn dieses Jahres, eines staatlichen Senders, der seine Programme in kurdischer Sprache ausstrahlt. Ministerpräsident Erdoğan sprach beim Sendestart von “TRT 6” sogar einen Satz auf Kurdisch. Als Folge der Tatsache, dass ein staatlicher Fernsehsender der Türkei ein Vollprogramm in kurdischer Sprache ausstrahlt, mehrten sich in den vergangenen Monaten die Forderungen nach weiteren Schritten. So wird über die Zulassung von kurdischen Wahlkampfreden ebenso diskutiert wie über kurdische Predigten in den Moscheen.

 

V MEDIO ORIENTE: CENTO ANNI DI STORIA PER CERCARE DI CAPIRE (7.4.2016)

Avevo fatto riferimento alle decisioni prese dai vincitori alla fine della Grande Guerra, decisioni che hanno condizionato e continuano a condizionare pesantemente gli eventi sullo scenario medio orientale che era stato ritracciato a tavolino sulle ceneri dell’impero ottomano. Una storia – come sempre – di estrema complessità. Viene in aiuto un contributo di limes, una delle riviste italiane di politica, fra le più serie (www.limesonline.com).

 

I confini del Medio Oriente dopo la Prima Guerra Mondiale

Le più importanti ridefinizioni territoriali dopo la Grande Guerra ebbero luogo nell’ex impero ottomano. Dall’Iraq alla Palestina, stiamo ancora facendo i conti con le decisioni prese dalle potenze europee quasi un secolo fa. Una tra le più importanti conseguenze della Grande guerra fu la rielaborazione dei confini geopolitici alla luce dello smembramento di antiche istituzioni imperiali.

La sopravvivenza di queste entità territoriali era stata notevolmente compromessa dalla “primavera dei popoli” e dalle forze centrifughe che avevano infiammato il continente europeo fin dalla metà dell’Ottocento. La guerra e la sconfitta militare ne decretarono il collasso. Al di là degli aggiustamenti territoriali della Mitteleuropa, le più importanti e cospicue ridefinizioni di confine si ebbero in Europa orientale, nell’area dell’ex Impero asburgico, della Russia zarista, rovesciata nel 1917, e soprattutto in Medio Oriente, sulle ceneri del defunto “grande malato”, l’Impero

ottomano.

La presenza di un’entità politica storica come la “Sublime Porta” aveva impedito, soprattutto nel corso del XIX secolo, la completa colonizzazione europea del Vicino e del Medio oriente. Il suo crollo permise alle potenze del vecchio continente di estendere la propria influenza in queste aree di strategico interesse introducendo “l’invenzione degli Stati”. Iraq, Israele, Giordania, Libano, Siria, Kuwait e Arabia Saudita furono entità statali istituite ad hoc principalmente da Francia e Gran Bretagna attraverso il “sistema dei mandati” concesso dalla Società delle Nazioni.

I nuovi confini, arbitrariamente tracciati, toccarono pericolosamente le corde della religione e delle etnie delle varie popolazioni coinvolte innescando pericolose dinamiche ancora oggi sotto gli occhi del mondo. Il controllo delle vie di comunicazione, il monopolio del commercio e successivamente lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi furono gli interessi dominanti che

guidarono i paesi europei nello stabilire, ancor prima della fine della Grande guerra, il nuovo assetto territoriale delle aree post-ottomane.

Per garantire la supremazia europea era necessario attuare l’antico motto divide et impera: spaccare le società dominate, frammentarle e aizzare le minoranze (prima fra tutte quella curda) contro le rivendicazioni arabe.

(…)

Alla fine della Grande Guerra, il trattato di Sèvres del 10 agosto 1920 ridefinì ulteriormente i confini mediorientali, già modificati dalla guerra italo-turca (1911-12), da quelle balcaniche (1912-13) e dalle rispettive paci, mutando radicalmente la fisionomia geopolitica dell’area.

La Turchia rinunciava a ogni pretesa di sovranità su Egitto, Cipro (confermando la sovranità britannica) e sulle isole del Dodecaneso, compresa Castelrosso, che venivano ufficialmente riconosciute territorio italiano dopo otto anni di occupazione. La Sublime Porta accordava inoltre l’indipendenza ai paesi arabi quali Higaz, Negd, Asir, Yemen, Siria, Palestina, Transgiordania e Iraq.
Perdeva ogni territorio europeo eccetto Costantinopoli e il Corno d’Oro; cedeva alla Grecia, oltre alla Tracia e alle isole di Imbro e Tenedo, l’amministrazione d’una parte dell’Anatolia occidentale tra il golfo di Adramiti e quello di Scalanova con la città di Smirne; riconosceva l’indipendenza dell’Armenia nei vilayet di Erzurum, Trebisonda, Bitrlis e Van; concedeva l’autonomia al Kurdistan.

L’Anatolia sud-occidentale venne ritenuta zona d’influenza italiana, mentre quella sud-orientale assegnata a quella della Francia, che estendeva in tal modo l’occupazione della Siria fino alla catena del Tauro, comprendendo le sponde del Mar di Marmara, del Bosforo e dei Dardanelli  (…)

Mentre il governo sultanale firmava il trattato di Sèvres, il generale Mustafà Kemal adunava le forze superstiti della nazione turca pianificando la lotta per l’indipendenza. L’obiettivo non era la restaurazione dell’Impero ottomano, ma la costituzione di un nuovo Stato nazionale turco. Fu sconfitto il regime autonomo dell’Armenia; l’Armenia russa cedette i distretti di Kars, Ardahan e Artvin (cessione che sarebbe stata riconosciuta dalla Russia sovietica nella pace di Mosca, il 16 marzo 1921). Il 10 settembre 1922, nell’ambito della guerra greco-turca (1919-1922), le truppe kemaliste riconquistarono Smirne.

Alla fine del conflitto, il trattato di Losanna (24 luglio 1923) annullava quello di Sèvres: la Turchia recuperava le aree di Smirne, la Tracia fino alla Maritsa e le isole di Imbro e Tenedo; la smilitarizzazione – comunque affidata al governo turco – veniva circoscritta alle sponde degli Stretti e alle isole a essi più vicine.

Il 2 novembre 1922, dichiarato decaduto il sultano, Costantinopoli perdette il rango di capitale in favore di Ankara (già sede dell’Assemblea nazionale), nuovo cardine della Repubblica ufficialmente proclamata il 31 ottobre 1923. Il 20 luglio 1936 la Convenzione di Montreux avrebbe riconosciuto la piena sovranità turca sulla zona degli stretti concedendo anche il diritto di poterli fortificare.
Soltanto alla fine del periodo interbellico, il 28 giugno 1939, la Francia avrebbe ceduto alla Turchia il territorio dell’ex sangiaccato di Alessandretta, facente parte del mandato siriano.

Siria e Libano

Gli eccidi anti-cristiani di fine Ottocento indussero l’intervento militare francese, finalizzato alla protezione e alla sicurezza dei fedeli. La potenza europea pretendeva inoltre dall’Impero ottomano la costituzione di una speciale provincia, il “Piccolo Libano”, governata da un cristiano nominato direttamente dal sultano previo placet delle potenze occidentali. Quando nel 1920 scoppiò la rivolta araba che proclamò l’indipendenza della Siria sotto l’egida dell’emiro Faisal, le truppe di Parigi intervennero nuovamente occupando il paese. Qualche mese più tardi la Francia presentò alla Società delle nazioni il piano per la spartizione della regione.

Sotto il nome di Siria o di “Stati del Levante” furono riuniti i vilayet turchi di Aleppo, Beirut, Damasco e Deir el-Zor. Staccati dalla Turchia nel 1918, questi territori furono assegnati dalla conferenza di San Remo (25 aprile 1920) in mandato alla Francia.

Il paese venne suddiviso in quattro Stati riuniti in federazione: Stato di Damasco, Stato di Aleppo, Libano e Stato degli Alawiti; a questi fu aggiunto nel 1921 anche il Gebel Druso. Il 1° gennaio 1925, Damasco e Aleppo furono accorpati in un unico Stato di Siria (capitale Damasco), da cui dipendeva il sangiaccato autonomo di Alessandretta, mentre i territori degli Alawiti (o di Latakia-Laodicea) e del Gebel Druso costituirono governi autonomi fino al 9 settembre 1936, quando furono accorpati alla Siria.

Il 2 settembre 1938 fu costituita nel sangiaccato di Alessandretta la Repubblica autonoma dello Hatay, in base a un accordo franco-turco. Il 23 giugno 1939, la Francia cedette questo territorio alla Turchia. L’Italia, quale potenza mandante, presentò una protesta formale il 10 luglio 1939. La regione fu occupata congiuntamente da forze britanniche e francesi fino all’indipendenza siriana e libanese del 1946.

Palestina e Transgiordania

Dopo quattrocento anni di dominazione ottomana, la spartizione della regione fu pianificata da Francia e Inghilterra con l’accordo segreto di Sikes-Picot (16 maggio 1916) che divideva l’area compresa tra la Siria e l’Iraq in differenti aree d’influenza. Le forze militari britanniche occuparono la Palestina nel 1917. Tre anni dopo, la conferenza di San Remo attribuì ufficialmente il mandato a Londra, confermato dalla Società delle Nazioni il 24 luglio 1922. Con la nota Balfour del 2 novembre 1917 il governo britannico si era impegnato a costituire in Palestina un centro nazionale ebraico che potesse accogliere gli ebrei della regione e quelli che, a causa della diaspora, si trovavano in altre nazioni. La questione fu molto dibattuta e proprio per questo motivo i britannici non menzionarono esplicitamente la formazione di uno “Stato ebraico” ma preferirono utilizzare il termine ambiguo di national home che avrebbe tutelato anche i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina.

Una grande ondata migratoria di ebrei si era già registrata a partire dalla seconda metà del XIX secolo. I primi insediamenti furono assimilati dalla componente araba e la società che venne a costituirsi era caratterizzata da un notevole grado di multiculturalità. Il flusso migratorio ebreo fu incoraggiato dai latifondisti arabi che, vendendo le proprie terre, accumulavano un’enorme quantità di denaro liquido – non reinvestito. L’acquisto sempre maggiore di terre da parte ebraica alimentò le prime preoccupazioni dei braccianti palestinesi che costituivano gran parte della popolazione. La Gran Bretagna propose la nascita del Comitato Esecutivo Arabo, un’organizzazione di tutela degli interessi degli agricoltori arabi, sia cristiani che musulmani, ma i palestinesi si opposero. Scoppiavano dunque i primi disordini.

Erano le iniziali avvisaglie del tragico e interminabile conflitto israelopalestinese, la cui radicalizzazione sarebbe avvenuta soprattutto a seguito dell’arrivo della componente aschenazita, del completo disimpegno britannico (1947) e della nascita dello Stato di Israele (1948).

Gli aschenaziti occidentali provenivano dalla Germania, quelli orientali da Polonia, Bielorussia, Ucraina, Russia, Caucaso e Stati Uniti. In virtù della risoluzione 181 del 1947 – che auspicava la spartizione del territorio conteso tra uno Stato palestinese, uno ebraico e una terza area comprendente Gerusalemme sotto amministrazione dell’Onu – all’interno dello Stato arabo avrebbe vissuto l’1% di popolazione ebraica e all’interno dello Stato ebraico il 45% di popolazione araba. La percentuale nella zona internazionale era più equilibrata: 51% di arabi e 49% di ebrei. In totale nell’area contesa c’era il 67% di popolazione araba e il 33% di popolazione ebraica. Per scongiurare disordini e rappresaglie, si era stabilito di accorpare tutte le aree in cui la quantità di coloni era significativa nonostante questi fossero comunque in minoranza. Venivano aggiunte inoltre ampie zone desertiche ancora disabitate in cui si sarebbero collocati i numerosi ebrei provenienti dall’Europa.

Secondo le previsioni, i reduci dalle persecuzioni naziste avrebbero dato vita a una massiccia migrazione. Mentre l’Agenzia ebraica, seppur con qualche perplessità, accettava la risoluzione dell’Onu, i gruppi più estremisti quali Irgun e Banda Stern rifiutavano – in base al concetto di Grande Israele – l’esistenza stessa di uno Stato arabo. Argomentazioni simili ma di segno opposto per la compagine radicale araba. Alcuni gruppi negavano l’esistenza di uno Stato ebraico, altri lamentavano la mancanza di contiguità territoriale.

Gruppi paramilitari sionisti e arabi iniziarono ad agire contro il provvedimento Onu e l’intera regione piombò nel caos, ulteriormente acuito dal ritiro militare britannico. Nel 1950 il parlamento israeliano [la Knesset] avrebbe approvato la Legge del ritorno confermando il diritto di ogni ebreo a stabilirsi in maniera permanente nel paese. Due anni dopo sarebbe stata introdotta la legge che

conferiva agli immigrati il diritto immediato di cittadinanza. Le dimensioni e la natura della popolazione erano in continua mutazione.

Dopo la vasta ondata migratoria dall’Europa, negli anni Cinquanta si ridusse la tendenza di nuovi arrivi. L’emigrazione dall’Unione Sovietica, per esempio, era molto difficile a causa dell’ostilità di Stalin verso il nuovo Stato d’Israele. Dall’est europeo giunsero soltanto 300 mila persone. Trend migratorio ridotto anche per quanto riguarda gli Stati Uniti, il cui grande gruppo della diaspora non era particolarmente interessato a emigrare.

Partirono infatti soltanto in 1900. Dopo il significativo arrivo di ebrei dall’Europa, dunque, l’altra grande componente giunse prevalentemente dal Medio Oriente (232.583) e dall’Africa Settentrionale (92.510) e avrebbe comportato, alla fine degli anni Cinquanta, il progressivo mutamento della composizione della popolazione israeliana. Questa compagine minoritaria

(8% prima della Shoah) divenne ben presto maggioranza, anche se di poco, della popolazione ebraica israeliana.

Per quanto riguarda la Transgiordania (o Giordania), durante il primo conflitto mondiale le tribù nomadi del deserto si sollevarono come tutti gli arabi mediorientali su istigazione britannica, contro il dominio turco. Unita inizialmente alla Palestina sotto mandato inglese, la regione ne fu staccata il 25 maggio 1923 e ottenne, nell’ottobre del 1925, anche l’annessione del territorio di Maan e del porto di Aqaba – cui si oppose l’Arabia Saudita. Nel 1946 fu riconosciuta la totale indipendenza e Abdullah si autoproclamò re del regno hashemita di Transgiordania.

Iraq

I vilayet di Bassora, Baghdad e Mosul, staccati dall’Impero ottomano nel 1918 e occupati dalle forze militari inglesi, furono riuniti in un unico Stato arabo in area mesopotamica, comprendente i bacini medi e inferiori del Tigri e dell’Eufrate, che venne chiamato Iraq, nome che originariamente designava soltanto il territorio compreso tra Baghdad e il Golfo Persico. Assegnato come mandato all’Inghilterra (2 marzo 1921), lo Stato sarebbe divenuto regno il 23 agosto 1921.

Per delimitare i nuovi confini, a nord, verso la Turchia, fu scelta la frontiera amministrativa che aveva separato il viláyet di Mosul dalle altre province ottomane. Questa delimitazione fu contestata dalla Turchia che rivendicava il territorio abitato prevalentemente da curdi. La querelle fu risolta il 5 luglio 1926, quando l’accordo di Ankara rigettò le istanze turche assegnando definitivamente il territorio all’Iraq. Per quanto riguarda le delimitazioni della altre aree, a est, sul versante iraniano, fu seguito il confine storico fra Impero ottomano e Impero persiano; a sud-ovest, col Neged (Arabia Saudita) la frontiera fu stabilita in maniera arbitraria per limitare lo sbocco del nuovo paese sul mare. Tra i due Stati fu lasciato un territorio neutrale di circa 5 mila kmq, ricco di pozzi frequentati con parità di diritti dai pastori nomadi di entrambi i paesi.

La popolazione irachena, composta da curdi, turkmeni, musulmani sunniti e sciiti, insorse contro l’amministrazione di Londra e all’inizio degli anni Venti la Gran Bretagna decise di favorire la nascita di uno Stato autogovernato. Come detto, nel 1921, fu istituita la monarchia costituzionale guidata dal fratello dell’emiro trasgiordano Abdallah, l’hashemita Faysal. Il 30 giugno 1930, col trattato anglo-iracheno, Londra concesse la piena indipendenza all’Iraq che entrò nella Società delle Nazioni il 3 ottobre 1932. L’Inghilterra, dunque, rinunciava formalmente al mandato, ma tra i due paesi fu siglato un patto di amicizia e di alleanza che vincolava comunque l’Iraq alla politica britannica e assicurava gli interessi economici di Londra nell’area. L’estrazione del petrolio dai giacimenti iracheni ebbe iniziò subito dopo la Grande guerra e le zone più importanti coinvolte nello sfruttamento furono tre: Khanaqin (pozzi Naftkhanah), Mosul e Kirkuk, di gran lunga la più importante località per ricchezza e per qualità del prodotto. L’estrazione era ovviamente assai limitata e nel periodo interbellico non superava le 120 mila tonnellate mentre un notevole incremento si registrò alla fine degli anni Trenta con l’inaugurazione degli oleodotti di collegamento tra Kirkuk e i porti del Mediterraneo per cui Gran Bretagna e Francia entrarono in competizione. Nonostante la formale indipendenza, i britannici riuscivano a dirigere la politica del paese. Gli sciiti furono estromessi dai gangli di comando a favore della componente sunnita. La base sociale dell’Iraq era particolarmente instabile: al conflitto serpeggiante tra sciiti e sunniti si aggiungevano, a nord, le pressioni curde sempre più insistenti per il riconoscimento dell’identità nazionale.

Stante la cronica debolezza del governo iracheno, a metà degli anniTrenta si susseguirono vari colpi di Stato che tuttavia non minarono la leadership britannica. Soltanto nel 1941, l’ascesa del nazionalista e panarabo Rashid Alì al-Gaylani avvicinò l’Iraq all’Italia mussoliniana e alla Germania nazista, ma dopo una breve e intensa campagna militare, Londra ripristinò il suo controllo.

Penisola arabica

Gli Stati e i possedimenti della penisola erano:

– Arabia Saudita, risultante dall’unione del Sultanato del Neged e del Regno

dell’Hegiaz nella persona di Ibn Saud, l’11 gennaio 1926. All’Arabia Saudita

era annesso anche l’Emirato dell’Asir;

– Yemen, imamato arabo indipendente;

– Aden, colonia e protettorato britannico, comprendente il possedimento di

Aden, l’isola di Perim nell’estremità sud-occidentale, il protettorato dei “nove distretti”, conteso dallo Yemen e dal 1933 l’Hadramawt su cui la Gran Bretagna estese il protettorato con atto unilaterale;

-Una serie di emirati e sultanati lungo la costa arabica dei golfi dell’Oman e Persico, tutti subordinati all’Impero britannico, tra cui: il sultanato di Mascat e l’imamato di Oman; sei piccoli sultanati della Costa dei Pirati (territorio che si estende dall’attuale Qatar alla penisola Musandam); gli emirati di El-Qatar e di El-Bahrein, il cui possesso era rivendicato dalla Persia; e il sultanato del Kuwait.

– Infine le isole Kuria Muria, che dopo la Prima guerra mondiale furono assegnate all’India dalle autorità britanniche. Dopo la Grande guerra, Londra ritenne che l’arcipelago appartenesse all’India.

 


IV MAMMA LI TURCHI… ANNOTAZIONI SULL’IMPERO OTTOMANO (4.4.2016)

L’impero ottomano (1299-1922) – in parte da Wikipedia

L’Impero ottomano o Sublime Stato ottomano fu l’impero turco che per ben sei secoli, dal 1299 al 1922, determinò le sorti non solo del vicino Oriente ma anche dei Balcani e di parte dell’Europa orientale e del Nordafrica. Durante il XVI e il XVII secolo, al suo apogeo sotto il regno di Solimano il Magnifico, era uno dei più potenti Stati del mondo, un impero multietnico, multiculturale e plurilingue, con Costantinopoli come capitale e un vasto controllo sulle coste del Mediterraneo. Durante la prima guerra mondiale si alleò con gli Imperi centrali e con essi fu pesantemente sconfitto, tanto da essere disgregato per volontà dei vincitori.

Le origini (1299-1453)

Già in origine venne creato dal sultano OSMAN un governo ottomano che utilizzava il sistema dei Millet, sotto il quale le minoranze religiose ed etniche avevano il permesso di gestire i propri affari con margini di sostanziale autonomia.

Nella battaglia di Varna (1444), Murad II sconfisse un’armata congiunta polacca e ungherese, guidata da Ladislao III di Polonia, re di entrambi gli Stati, e János Hunyadi. Fu la battaglia finale della crociata di Varna. János Hunyadi preparò un’altra armata (composta da forze ungheresi e valacche) per attaccare i Turchi, ma nel 1448 fu sconfitto di nuovo da Murād II nella seconda battaglia del Kosovo.

Il figlio di Murād II, Maometto II, detto poi Fātiḥ (conquistatore), riorganizzò lo Stato e l’esercito, e dimostrò la sua abilità bellica conquistando a 21 anni Costantinopoli, il 29 maggio 1453. Fu il crollo definitivo dell’Impero romano d’Oriente.

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L’apogeo (1453-1566)

Maometto II permise alla Chiesa ortodossa di mantenere la sua autonomia e le sue terre in cambio dell’accettazione dell’autorità ottomana. A causa delle cattive relazioni esistenti tra l’Impero bizantino degli ultimi periodi e gli Stati dell’Europa occidentale, la maggioranza della popolazione ortodossa accettò il dominio ottomano, preferendolo a quello veneziano.
Tra il XV e il XVI secolo l’Impero ottomano visse un lungo periodo di conquiste ed espansione, e prosperò sotto una lunga dinastia di sultani. L’economia dello Stato fiorì anche grazie al controllo delle vie commerciali di terra tra l’Europa e l’Asia.

Gli Ottomani spostarono poi la loro attenzione a oriente, espandendo i loro domini in diverse regioni dell’Asia e del Nordafrica, guidati da grandi sultani, come Bayazid II e Selim I – che abbatté il Sultanato mamelucco di Siria ed Egitto e conquistò tutti i paesi arabi del Vicino Oriente, acquisendo il titolo di protettore dei Luoghi santi di Mecca e Medina.
Il successore di Selim, Solimano il Magnifico (15201566) tentò nuovamente la strada dell’espansione nei Balcani, ed entrò così ancora in contrasto con i regni europei per il predominio sul mar Mediterraneo. Nel 1521 conquistò Belgrado, nel 1522 Rodi, nel 1526 nella battaglia di Mohács sconfisse il re d’Ungheria e Boemia Luigi II, che morì in combattimento. La vittoria nelle guerre ottomano-ungheresi stabilì il dominio turco nelle parti meridionali e centrali del Regno di Ungheria.

Nel 1529 gli ottomani proseguirono su Vienna, assediando la città, ma non riuscirono a prenderla. Nel 1532 Solimano lanciò un altro attacco a Vienna, ma fu respinto nell’assedio di Güns. Dopo lungo e sanguinoso assedio cadde invece in mano turca Buda, la capitale ungherese (1541).
dell’Algeria (1534), dello Yemen (1547), di Tripoli (1551)[2]. Con la conquista della persiana Baghdad, gli ottomani ottennero il controllo della Mesopotamia e l’accesso navale al Golfo Persico.
Alla fine del regno di Solimano la popolazione dell’Impero ammontava a 15 milioni di abitanti. L’impero ottomano era una notevole potenza navale, controllava gran parte del Mar Mediterraneo ed era una parte significativa e soprattutto accettata dello scacchiere europeo.

Rivolte e ripresa (1566-1683)
Nel corso di un protratto periodo di cattivo governo da parte di sultani deboli, le strutture burocratiche e militari del precedente secolo risultarono sotto sforzo. Gradualmente gli ottomani rimasero indietro rispetto agli europei in termini di tecnologia militare, mentre l’innovazione, che aveva rinvigorito l’espansione dell’Impero, fu soffocata da un crescente conservatorismo religioso e intellettuale. Comunque, a dispetto di queste difficoltà, l’Impero rimase una delle principali potenze del continente fino alla battaglia di Vienna del 1683, che segnò la fine dell’espansione ottomana in Europa.

La scoperta di nuove rotte commerciali da parte degli Stati dell’Europa occidentale permise di aggirare il monopolio commerciale ottomano. Il superamento del Capo di Buona Speranza da parte dei portoghesi nel 1488 diede inizio a una serie di guerre navali tra Ottomani e Portoghesi nell’Oceano Indiano che durò per tutto il ‘500. Economicamente, l’enorme afflusso di argento spagnolo dal Nuovo Mondo provocò una netta svalutazione della valuta ottomana e una fortissima inflazione.

Nel 1566 Solimano il Magnifico tentò ancora l’attacco alla Monarchia asburgica, rappresentata ora dall’imperatore Massimiliano II. Si diresse su Vienna con un esercito di 150.000 uomini, ma si fermò alla fortezza di Szigetvár, il cui assedio gli costò un mese di fermata e perdite stimate fra i 20.000 e i 30.000 uomini. Ad assedio quasi concluso morì. La vicinanza della brutta stagione e la vacanza del potere a Istanbul convinsero il suo Gran Visir a rientrare nella capitale ottomana. Questo risparmiò all’Austria un altro pericoloso attacco e il successivo Trattato di Adrianopoli, del febbraio 1568, sancì una tregua fra i due avversari; avrebbe dovuto durare otto anni ma ne durò circa 25.

La flotta europea si scontrò con quella ottomana a Lepanto nel 1571, e i cristiani ottennero un’importante vittoria. Fu un sorprendente colpo all’immagine dell’invincibilità ottomana.

Un priodo di rinnovata affermazione finì nel maggio del 1683, quando il Gran Visir Kara Mustafa condusse un’enorme armata (300000 uomini) al secondo assedio ottomano di Vienna, nella guerra austro-turca. Prima dell’assalto finale, le forze ottomane furono spazzate via dagli alleati degli Asburgo, le forze polacche comandate dal re polacco Jan Sobieski alla Battaglia di Vienna. L’alleanza della Lega Santa (80000uomini) uscì vittoriosa dalla guerra, e si giunse alla Pace di Carlowitz (26 gennaio 1699) che sancì la perdita di importanti territori. Mustafa II (1695-1703) lanciò in Ungheria il contrattacco del 1695-96 contro gli Asburgo, ma fu duramente sconfitto a Zenta (11 settembre 1697). Fu l’inizio del periodo di decadenza del Sultanato.

Stagnazione e riforme (1683-1827)

Già nel corso del Seicento si profila una crisi finanziaria che porta all’introduzione di nuove tasse e all’incremento della corrizione. Con la scoperta delle vie navali attorno all’Africa gli Ottomani perdono il monopolio navale per l’India e la flotta navale si riduce drastcamente. L’impero si trova in ritardo rispetto all’Euroa cristiana su tutto il fronte della conoscenza e della tecnica.

I Sultani invece di favorire l’innvoazione la smorzano, ad es. proibendo la stampa, addirittura con la pena di morte (1483).

Queste debolezze si fanno vieppiù sentire di fronte alle mire spansionistiche della Russia.
La guerra austro-russo-turca del 1735-1739, che terminò col Trattato di Belgrado del 1739, segnò la cessione della Serbia e della “Piccola Valacchia” all’Austria e del porto di Azov alla Russia. Dopo questo trattato l’Impero ottomano poté godere di una generazione di pace, in quanto Austria e Russia erano impegnate a fronteggiare l’ascesa della Prussia.
Furono realizzate riforme nel campo dell’educazione e nella tecnologia, inclusa la fondazione di istituti di istruzione superiore come l’Università Tecnica di Istanbul. Nel 1734 nacque una scuola di artiglieria per adeguarsi ai metodi di artiglieria occidentali, ma il “clero” musulmano ne ottenne la chiusura. La scuola fu riaperta nel 1754 in segreto. Poi nel nel 1726, Ibrahim Muteferrika convinse il Gran Visir Nevşehirli Damad Ibrahim Pasha, il Gran Mufti e le autorità religiose dell’efficienza della stampa, e più tardi il sultano Ahmed III garantì a Muteferrika il permesso di pubblicare libri di argomento profano (nonostante l’opposizione di alcuni calligrafi e leader religiosi). La stampa di Muteferrika pubblicò il primo libro nel 1729, ed entro il 1743 aveva prodotto 17 lavori in 23 volumi, ciascuno tra le 500 e le 1.000 copie.

La rivoluzione serba (1804-1815) segnò l’inizio del risveglio dei nazionalismi nei Balcani nel tema della Questione Orientale. La sovranità della Serbia come monarchia ereditaria fu riconosciuta de jure solo nel 1830. Nel 1821 i greci dichiararono guerra al Sultano: una ribellione che ebbe origine in Moldavia come diversivo, fu seguita da una più imponente rivoluzione nel Peloponneso che nel 1829, insieme alla parte settentrionale del Golfo di Corinto, divenne la prima regione dell’Impero ottomano a ottenere l’indipendenza. Verso la metà del XIX secolo, l’Impero ottomano fu chiamato “il malato d’Europa”. Gli Stati nascenti di Serbia, Valacchia, Moldavia e Montenegro si mossero verso l’indipendenza negli anni sessanta e settanta dell’Ottocento.

Il declino

Nel 1699 i turchi cedettero di nuovo davanti alla pressione austriaca (pace di Passarowitz del 1718), e abbandonarono l’Ungheria e la Transilvania; nel 1739 gli ripresero Belgrado e tutti i territori perduti in precedenza (trattato di Belgrado), ma fu il loro ultimo successo. La potenza emergente della Russia divenne un problema, non solo per l’Impero ottomano, ma per tutta l’Europa: la sua ascesa pose fine all’egemonia turca nei Balcani. Nel XVIII secolo, i Russi avevano già conquistato il Caucaso, la Bessarabia, la Moldavia, la Valacchia, e con il Trattato di Iași, in seguito alla guerra russo-turca (1787-1792), anche la Crimea (1783) divenne definitivamente territorio russo. Ormai, nel Mar Nero le flotte dello zar navigavano indisturbate.
La guerra di Crimea (1858-1856) vede le potenze europee (Francia, Inghilterra) allearsi con gli Ottomani per contrastare la Russia.
Nel corso del XIX secolo l’Impero vide poi ridursi progressivamente i propri domini europei con l’indipendenza della Serbia, della Romania con l’unificazione di Moldavia e Valacchia, del Montenegro e della Bulgaria e l’espandersi di questi Stati e della Grecia ai danni degli ottomani. I continui ingrandimenti territoriali dei nuovi stati balcanici furono sanzionati, in particolare, dalla Pace di Santo Stefano e dal Congresso di Berlino del 1878.

Nel 1908 l’impero, oramai in crisi, subì la cosiddetta rivoluzione dei “Giovani Turchi“. Il movimento era composto da intellettuali e ufficiali che volevano trasformare l’impero, molto arretrato dal punto di vista economico, in una moderna monarchia costituzionale. Nell’estate di quell’anno alcuni ufficiali marciarono col loro esercito contro Istanbul, costringendo il sultano a concedere la costituzione.
Il nuovo regime tentò di modernizzare il paese, ma non riuscì a risolvere il problema dei rapporti con le popolazioni europee ancora sottomesse. Nel 1911 l’Impero dovette combattere contro l’Italia una guerra per il possesso della Tripolitania e della Cirenaica. L’Italia, governata da Giovanni Giolitti, inviò un contingente di 100.000 uomini e nel 1912 i Turchi furono costretti a firmare la pace di Losanna con la quale cedevano il territorio libico all’Italia, mantenendo però una equivoca sovranità religiosa sulle popolazioni musulmane del luogo.
Nello stesso 1912 gli Ottomani dovettero affrontare una coalizione formata da Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria, nella prima guerra balcanica. L’Impero fu sconfitto in pochi mesi, e perse l’Albania (che dichiarò la propria indipendenza) e tutti gli altri territori europei, a eccezione di una piccola striscia della Tracia orientale. L’anno dopo però, con la seconda guerra balcanica, i Turchi entrarono in guerra insieme a Grecia, Serbia e Romania contro la Bulgaria, e dopo la vittoria riottennero un’altra parte della Tracia, con la quale potevano controllare gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli.

Nel 1914 l’Impero ottomano controllava ancora la Siria, il Libano, la Palestina e i territori comprendenti la Giordania, l’Iraq e la Penisola arabica; l’Egitto continuava a far parte dell’impero come Stato autonomo, anche se di fatto era un protettorato dei britannici.
Il controllo del Nordafrica era stato invece già da tempo perduto, con il Marocco esposto alle mire tedesche, spagnole e francesi, con l’Algeria occupata stabilmente nel 1830 dalla Francia (che lo trasformerà in “territorio metropolitano”) e con la Tunisia diventata Protettorato francese, mentre la Tripolitania e la Cirenaica erano diventate italiane grazie al conflitto del 1911 perso dall’Impero ottomano.

La Grande Guerra e il genocidio armeno

Nella prima guerra mondiale l’Impero si alleò con gli Imperi Centrali e con essi fu pesantemente sconfitto, malgrado avesse inflitto alle forze francesi (praticamente annichilite), a quelle britanniche, a quelle australiane e a quelle neozelandesi una pesante sconfitta a Gallipoli, grazie all’insipienza alleata e al genio militare del Tenente colonnello (Yarbay) Mustafa Kemal Pascià, allora comandante della 19ª Divisione della Quinta Armata ottomana.
Durante la guerra – in cui esplose la Rivolta Araba – il governo dei “Giovani turchi“, timoroso che gli Armeni dell’Impero potessero allearsi coi russi, procedette a massacri e deportazioni, ricordati col nome di “genocidio armeno“, che ancora oggi le autorità turche stentano a riconoscere esplicitamente nei termini proposti dalla maggioranza degli storici.

Nel novembre del 1922 l’ultimo sultano Mehmed VI fu deposto per volere del vittorioso movimento repubblicano kemalista, a causa dei disastri che la guerra mondiale aveva causato, e l’Impero divenne nel 1923 l’attuale Repubblica turca.

Dall’Impero ottomano alla Turchia moderna

Dopo la sconfitta l’Impero, già notevolmente ridotto dal Trattato di Sèvres a parte della penisola anatolica e della Tracia orientale, dovette subire anche l’occupazione straniera, con la Grecia che prese la zona di Smirne e gli eserciti anglo-italo-francesi che presidiavano le regioni costiere. A guidare il movimento di indipendenza nazionale fu un generale dell’esercito ottomano, Mustafà Kemal Pascià, detto in seguito Atatürk (padre dei Turchi), che si era messo in mostra nella vittoriosa battaglia di Gallipoli e che aveva anche partecipato alla rivoluzione dei “Giovani Turchi”. Nella guerra greco-turca del 1919-1922, britannici, italiani e francesi preferirono lasciare il campo e sgomberare le loro forze armate dalla regione, e i Greci dovettero affrontare da soli la riscossa turca, così come da soli avevano proceduto ad occupare ampie aree turche.
In poco più di due anni i Greci furono ripetutamente sconfitti e costretti a lasciare Smirne. Nel novembre del 1922 fu abolito il Sultanato e nel 1923 fu proclamata la Repubblica Turca, di cui Atatürk fu il primo Presidente.

 


III DIE BALKANLÄNDER (28.3.2016)

Anlässlich der kürzlich durch das UNO-Kriegsverbrechentribunal nach achtjährigem Prozess erfolgten Verurteilung von Radovan Karadzic wegen Völkermord an die bosnisch-islamische Bevölkerung titelte die NZZ „Der unbewältigte Krieg“. Tatsächlich stehen die Zeichen für einen Neuanfang in dieser seit je vom Krieg geplagten Region nicht sonderlich gut und die Versöhnung rangiert kaum zuoberst auf der Agenda der religiös, kulturell und ethnisch unterschiedlich geprbrill4500ägten Völker und Staaten des Balkans. Nicht nur, dass das Urteil für den Montenegriner, der den Tod wie kein anderer umworben hat und auch als Dämon bezeichnet wurde relativ milde ausfiel – für den als erwiesenen Genozid in Srebrenica hat er nicht lebenslänglich, sondern ‚nur’ 40 Jahre erhalten –, sondern auf Unverständnis ist auch der Umstand gestossen, dass andere Kriegsverbrecher, so etwa der kroatische General Ante Gotovina, freigesprochen wurden. Dementsprechend weigern sich die Serben das Tribunal anzuerkennen und in der Bevölkerung sind die Bewunderer des ‚Helden’ Karadzic keine Ausnahmen. Ja wahrlich kaum gute Voraussetzungen für eine versöhnliche Zukunft, nach einer von ewiger Zerwürfnis gekennzeichneten Vergangenheit.

Die kulturell, politisch und menschlich komplexe Lage des Balkans reicht in der Tat weit zurück. Dass Muslime, orthodoxe Christen und Katholiken koexistieren ist Ausdruck einer verzwickten Geschichte und hängt eng mit dem Los des osmanischen Reiches zusammen. So konnten Karadzic und Konsorten ihren ethnischen Hass gegen die Muslime mit Verweis auf die türkische Herrschaft anheizen. Sarajewo, dass sich noch im Jugoslawien Tito’s als Beispiel multikultureller Koexistenz gehalten hatte, musste dies 1996 nach beinahe dreijähriger Belagerung   mit 200000 Toten bezahlen. Noch wenige Jahre zuvor bleibt die Stadt aufgrund der olympischen Winterspiele in Erinnerung. Dann kam der Mauerfall, der wie jedes verheissungsvolle historische Ereignis auch negative, unvorhersehbare und kaum steuerbare Effekte zeitigte.

Für den Balkan war bereits die Trennung des römischen Reiches 395 n. C. durch Theodosius in einen östlichen von der griechischen Kultur gekennzeichneten und von Bysanz aus regierten Teil und einen westlichen Teil mit kulturellem, religiösem und politischem Zentrum in Rom entscheidend. Die heutigen Kroatien und Bosnien-Herzegovina gehörten zum westlichen Teil, während die übrigen Regionen unter den östlichen Einfluss gerieten. Damit ging die Separation des Christentums in eine östliche und eine westliche Kirche einher. Danach wurde die Balkanregion sukzessive von den slawischen Völkern erobert, der den römischen bzw. griechischen (v.a Albanien und Mazedonien) Einfluss allerdings nie ausmerzte.

Eine der slavischen Gruppe, die heutigen Kroaten, geriet danach unter die Herrschaft von Karl dem Grossne und wurden zum Katholizismus konvertiert, derweil die andere Gruppe, die Serben, weiterhin in der griechisch-orthodoxen Kirche blieb. In diese Zeit fällt der Beginn der Evangelisierung der Slaven durch christliche Mönche. Einem dieser Mönche, Cyrill, verdanken wir die Schaffung der zyrillischen Schrift, die auf der Basis der griechisch-byzantinischen Buchstaben entstand.

Die osmanische Epoche begann schon vor dem 15. Jh.. Mit Ausnahme von Montenegro hatte die Türken die ganze Region erobert, was auch zur Verbreitung des Islams beitrug. Ab dem 18. Jh. geriet das osmanische Reich zunehmend in Schwierigkeiten, so ereigneten sich gegen Ende des 19. Jh. ereigneten Aufstände von Christen, was 1903 zur Schaffung des panslavischen Königreichs Serbien mit Kroatien, Slovenien und Serbien. Dagegen wurde Bosnien von der austro-ungarischen Monarchie beansprucht. Um die Kontrolle der übrigen Regionen (Albanien, Montenegro, Mazedonien) brach in dieser Zeit eine starke Konkurrenz zwischen Serbien, Bulgarien und Griechenland aus. 1908 annektieret die austro-ungarische Monarchie Bosnien-Herzegovina, was die Spannung ansteigen lässt und u.a. zur Auslösung des ersten Weltkriegs durch den Mord eines Panslavisten an den Grossherzog Franz-Ferdinand am 28. Juni 1914 in Sarajewo führte. Zuvor, 1912, hatte eine Allianz von Serbien, Bulgarien und Griechenland im ersten balkanischen Krieg die Türken geschlagen und nach Konstantinopel zurückgedrängt.

Mit der Auflösung der austro-ungarischen Monarchie nach Ende des Weltkrieges entstand 1929 das moderne Jugoslavien als Krönung des panslavischen Traumes.

Im zweiten Weltkrieg stand Jugoslavien vor einer Zerreissprobe: mit oder gegen Hitler. Dies blieb nicht ohne Folgen, denn die Ustascia (kroatische Faschisten) kämpften gegen die Kommunisten und die Nationalisten, während die Albaner gleichzeitig gegen Deutsche und Italiener kämpften. Insgesamt ein furchtbares Kriegsszenario, das dem hobbschen bellum omnium contra omnes alle Ehren erweist. Nach der Eroberung 1941 setzten die Nazi die Ustascia an die Macht. Diese gingen gegen die Serben äusserst brutal und im Sinne einer ethnischen Säuberung vor, u.a. in der Absicht Orthodoxe zum Katholizismus zu zwingen. 1944 erobert Tito Belgrad mit der Roten Armee und wird zum Premieminister.

Tito zeigt Rückgrat, 1948 bricht er mit Stalin und ordnet eine Reihe Reformen an, die zum jugoslavischen Modell führen. Derweil bleibt Albanien Stalin treu. Nach dem Tod Titos (1980) nehmen die inneren Spannungen zu. Der Fall der Berliner-Mauer führt zum endgültigen Auseinanderbrechen. Slobodan Milosevic, der serbische Führer, unterdrückt alle demokratischen Öffnungen sodass sich bald Slovenien verselbständigt, gefolgt von Kroatien und Makedonien. Die Serben in Kroatien versuchen in der Krajina einen eigenen Staat zu gründen. Als die Reihe an Bosnien-Herzegovina ist, bricht der Bürgerkrieg aus: Serben, Bosniaker und Kroaten kämpfen gegeneinander. Die Blauhelme der Uno intervenieren, können aber den Massaker nicht verhindern. In Dayton (1995) wird schliesslich Bosnien-Herzegovina als Föderation konstituiert, 49% Landanteil serbisch (Republicaa Serpska), 51% kroatisch-muslimisch. In Albanien brechen bald chaotische Zustände aus, die lange andauern werden und in Kossovo beginnt die albanische Minorität einen Krieg gegen Serbien, der nur mit einer NATO-Intervention abebbt.

In Folge des Krieges und der darauffolgenden ökonomischen Krise flüchten Tausende nach Westeuropa.

2001 verliert Slobodan Milosevic die Macht und eine neue Aera scheint anzubrechen. Und dennoch die albanischen Minderheiten in Kossovo und Makedonien kommen nicht zur Ruhe, während sich Montenegro 2006 verselbständigt.

Sind Versöhnung und Frieden dennoch möglich? Die Hoffnung bleibt auf jeden Fall!

 


 

II TRIESTE (26.3.2016)

Umberto Saba

Città vecchia

(da Trieste e una donna, 1910-12)

Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.

Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.

Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.

 

Trieste Saba

Felice intuizione quella di Umberto Saba quando disse della “grazia scontrosa” di Trieste (grazie a Elena Boldrini per la dritta…), per poi farne un’immagine così densa e toccante nella poesia “Città vecchia” dove “il pensiero si fa più puro dove più turpe è la via.”

Trieste, città all’incrocio tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud, per vocazione storica multietnica e multilingue, non ha perso il suo lustro austro-ungarico frammistosi nel tempo al fascino mediterraneo. La gente sente le origini e ne parla, anche perché stimolata da un’architettura imponente che tradisce il carattere mitteleuropeo della città. Vienna sembra più vicina, come lo era allora, quando Trieste era lo sbocco sul mare, riconosciuto dall’Impero Asburgico sotto forma di porto franco già nel 1719, e dava al Nord quel respiro mediterraneo altrimenti mancante. Qui Claudio Magris ha intessuto le sue lodi della cultura mitteleuropea, stimolato da una storia densa e ricca. Divenuta capitale del cosiddetto Litorale austriaco nel 1867 Trieste prosperò grazie ai commerci e favorì lo sviluppo di una forte borghesia mercantile che, ormai insoddisfatta dei vincoli austro-ungarici, sarà determinante per l’ascesa dell’irredentismo. Soprattutto in quest’epoca si fa cosmopolita, plurlingue e plurietnica.
Al caffè San Marco si rivivono entrambe le anime, quella irredentista e quella multietnica.
Dopo la Grande Guerra, nel 1920, Trieste passa all’Italia ed inizia a subire i contraccolpi del fascismo che, tra l’altro, proibisce l’uso pubblico del tedesco e dello sloveno. Seguirà, dopo la seconda guerra mondiale, l’occupazione jugoslava finita però con il Trattato di Parigi del 1947 con cui Trieste una città stato indipendente (Territorio libero di Trieste) sotto la protezione delle Nazioni Unite. Nel 1963 viene creata La Regione Friuli Venezia Giulia di cui Trieste diviene capoluogo. Oggi il mito della Trieste territorio libero sta ritornando in auge.

Postilla: oggi, 27 marzo, giorno di Pasqua sono stato al San Marco dopo tanti anni. Che emozione varcare la soglia di uno dei Caffé storici d’Europa. Ma per descriverlo è meglio ricorrere a Claudio Magris che ne fa uno dei suoi microcosmi – oppure ricorrere alle foto…